Pamir Highway

L’itinerario stavolta l’ha scelto Giacomo. Toccava a lui. E la Pamir highway era una sua fissa da anni.

Asia centrale, grandi spazi, alte montagne, strade incerte e polverose, gente un po’ sorpresa ma curiosa ed ospitale. Trovato tutto. E l’Afghanistan lì ad un passo, che potevamo tirargli i sassi quando il fiume si restringeva ma che restava sempre il bello intoccabile. Dal Khyber Pass al Whakan, continuiamo a giragli intorno senza riuscire ad entrarci. In realtà si potrebbe anche ma in fondo.. ”teniamo famiglia”.

Il secondo volo della Turkish, da Istanbul a Dushanbe è in notturna. Sorvola Baku, che illumina di luci la sua sponda del Mar caspio. Anche alle 2 di notte è scintillante. Come tutte le città neo-ricche di petrolio e gas, lo vogliono ostentare e alle discussioni sul risparmio energetico ci arriveranno in seguito. Come se ci dicano “ora lasciatelo godere un po’ a noi questo sfarzo”.

Arriviamo a Dushanbe alle 3.30, in perfetto orario. Si sa che quando lo gradiresti un pochino, gli aerei non fanno mai ritardo. All’uscita veniamo accolti dalla consueta pletora di procacciatori di taxi abusivi. Lasciamo decantare un po’ la frenesia prendendoci un caffè e ripassando la guida per decidere dove andare. Alla fine ne resta uno ed usciamo con lui, premiandone la perseveranza. Faccio per accendermi una sigaretta, in fondo sono 15 ore.., ma il nostro tassista si guarda intorno allarmato e mi fa cenno di no. Lo ignoro ma poi vengo a sapere che in effetti c’è un divieto di fumare per strada, con tanto di multa salata (almeno per loro) per i trasgressori.  In Tajikistan! E io che li facevo dei fumatori a catena..  Attraversiamo una Dushanbe deserta che comincia a svegliarsi e alle prime luci dell’alba arriviamo all’hotel Tajmatublot (la mia conoscenza dell’alfabeto cirillico comincia in questo frangente ad esser messa a dura prova). Entro col tassista in una hall deserta, facciamo un po’ di rumore e dopo un po’ da una porticina laterale esce la portiera di notte, capelli arruffati e segno del cuscino in faccia. Spendo 4 delle 20 parole totali che so di russo e le chiedo se parla inglese: “Vi gavaritye pa anglisky?” “Niet” e da qui capisco che l’incomunicabilità sarà una caratteristica distintiva di tutto il viaggio. Se anche alla reception di un albergo della capitale non vanno più in là del russo come lingua straniera, stiamo freschi..  Fortunatamente i numeri sono uguali e con l’aiuto della onnipresente calcolatrice riesce a dirmi il prezzo della stanza che, nonostante la contrattazione, resta alto, almeno per il nostro budget. Faccio capire al tassista di portarci altrove e pazienza per l’inutile sveglia notturna della portiera. L’autista capisce in che fascia di spesa vogliamo restare e chiedo consiglio a lui. Ci porta all’hotel Vaksh, il classico nobile decaduto con saloni e decorazioni che parlano di gran fasti passati. Comunichiamo un po’ a parole, un po’ a gesti, un po’ a calcolatrice con l’immancabile donna-sergente del piano. E’ più simpatica della precedente, nonostante il segno del cuscino in faccia sia lo stesso, il prezzo è decisamente migliore e la vista del letto a quell’ora è troppo invitante. Presa. E fino alle 11 non ci sente più nessuno. La scelta si rivela azzeccata, è centrale, vicino al bazar e ottimo punto base per i giri in centro.

Di solito le città moderne non mi piacciono. Una città senza parte vecchia la trovo anonima, impersonale, senza storia, senza carattere ma Dushanbe è diversa. Fino agli anni 20 era un villaggio di 40 case, poi i russi hanno deciso di farne la capitale del nuovo stato del Tajikistan e l’hanno costruita con un criterio che mi piace. Ha tantissimo verde, grandi viali pedonali alberati, anche al centro delle strade ad alto scorrimento, parchi ben curati dappertutto e poco traffico, ma questo ripensandoci bene sarà anche dovuto al fatto che eravamo lì di sabato e domenica. Comunque è rilassante e ci passiamo il week end visitando i parchi con le sue statue vecchie e nuove (pre e post USSR),

il museo, il pennone per bandiera più alto del mondo (165m), il mercato, pub e ristoranti, in totale relax.

Il lunedì mattina alle 6 si va al mercato. E’ da lì che partono i taxi collettivi per il Gorno-Badakshan, anche detto GBAO, la grande regione orientale del Tajikistan, formata quasi interamente dall’altopiano del Pamir. Troviamo subito una macchina, un 4×4 con tre file di posti (tecnicamente 2+3+3) che si dice pronta a partire, manca solo un passeggero che sta per arrivare. Alla fine partiamo alle 9 (…) e in macchina saremo in 12, 6 adulti e 6 bambini (di età compresa tra 1 e 9 anni). Pronti noi, ma la macchina non si accende. Per espletare questa operazione, abbastanza fondamentale per un viaggio(…), è presa a prestito un’altra batteria che viene calata nel vano apposito con tutto il cartone. Acceso il motore, la batteria funzionante viene estratta e quella originale viene rimessa in posizione. Sperando si ricarichi strada facendo. La mia vicina di posto è Maryam, la più grande(9anni) del gruppo bambini-tajiki, che dopo un po’ di timidezza iniziale, mi sfoggia tutto il suo vocabolario di inglese (più o meno come il mio russo) ma, cosa fondamentale, mi insegna i numeri in Tajiko ed in russo. Grazie Maryam, ne ho fatto buon uso.  Alle 15 c’è uno stop forzato. Strada chiusa per lavori. La voce che gira tra le macchine ferme è che riaprirà alle 18. Quantomeno il panorama è bello, i bambini giocano tra le macchine, i grandi si siedono all’ombra dei camion e io mi faccio due chiacchiere con un americano che è in giro in moto con due irlandesi. La strada riapre prima del previsto (alle 1630) e dopo un po’ di discesa, cominciamo a costeggiare il fiume che ci separa dall’Afghanistan e che sarà, a destra, il nostro compagno di viaggio per centinaia di km, marrone, ampio e calmo o stretto e impetuoso, con rapide e cascatelle.

L’Afghanistan sull’altra sponda presenta subito le sue asperità e sembra un muro di pietra impenetrabile, con solo una stradina sterrata che graffia la montagna e sarà sempre lì, infinita e continua.

Abbiamo costeggiato il fiume per 550km e tutti e due lo guardavamo in silenzio aspettando un guado o un punto per superarlo e mettere un piede di là, interloquire con qualcuno, ma l’occasione non si è mai presentata. In 550km abbiamo visto 3 ponti. Tutti e 3 sigillati e ben sorvegliati. Lungo la strada ogni tanto si incrocia una pattuglia dell’esercito; 3 o 4 ragazzi in tuta mimetica ad assicurarsi che non lo trovino i talebani un punto per guadare il fiume in senso opposto.

Si arriva a Kalai kum all’ora del tramonto e c’è sosta toilette. Si era pensato di fermarci qui per la notte ma decidiamo di fare tutta una tirata fino a khorog, dove, il giorno dopo, ci aspetta la macchina con autista che ci scorrazzerà per il Pamir. Il capolinea del nostro mezzo però è 80km prima. Proviamo a parlare con Manusher l’autista. Da quello che dice (ovviamente in Russo), si capisce che non ci dobbiamo preoccupare. Stanotte ci fermiamo da lui e domattina prendiamo un mezzo che ci porta a Khorog. Vabbè, è andata. A Ruslan mancano 180km ma la strada è pessima. Sterrata e dissestata, ci impone una media di 30kmh, al buio, con scossoni continui. Arriviamo a Ruslan distrutti. Prima di arrivare al capolinea, Manusher devia a sinistra, entra in una proprietà, ci fa capire che quella è casa sua e che NOI siamo arrivati. E’ l’una e mezza di notte. Scendiamo, prendiamo i bagagli, salutiamo Maryam e il resto della banda, ci indica un palchetto in giardino e ci fa capire che quella è la sua stanza degli ospiti.

Poi riparte ad accompagnare gli altri. Un po’ indecisi sul da farsi, al buio, tastiamo l’interno del palchetto, è pieno di soffici coperte e trapunte. La stanchezza è tanta e ci addormentiamo subito.  Dopo qualche ora è giorno pieno e i rumori delle attività domestiche (nonché i belati dal recinto), ci svegliano e ci si svela il contesto abitativo che di notte era nascosto dall’oscurità. Capisco che Manusher aveva chiamato la moglie avvisandola di preparare il letto per gli ospiti. Quel palchetto viene normalmente usato per stare in giardino, per prenderci il tè o anche per mangiare all’esterno, seduti a gambe incrociate sui tappeti. La moglie di Manusher, con un gran sorriso ci dice che ha studiato all’università e un po’ di anglisky lo conosce (lo usa mentre ci serve una ricca colazione a base di uova, cetrioli e frutta varia). Poi si è sposata, si è ritirata in Pamir, ha fatto tre figli e lì li cresce, insieme a pecore e galline,

mentre il marito fa avanti e indietro portando passeggeri da e per la capitale. Con buona pace della sua laurea. Ci fa vedere casa, ci dice che nei progetti di ampliamento c’è anche un bagno in casa. Quello che c’è al momento è una cabina di legno in un angolo del giardino. Pavimento di legno con un buco in mezzo. Punto. Ops, non c’è il bidet. Sti tajiki, peggio dei francesi… 

Dopo un po’ ci congediamo. Manusher ha chiamato l’autista della Marshrutka (il furgoncino per trasporto passeggeri dell’Asia centrale) e gli ha detto di fermarsi quando passa di lì. Ci accompagna alla fermata con il figlio piccolo sulle spalle. Lo saluto con una banconota di ringraziamento nel palmo della mano mentre gliela stringo ma la rifiuta con forza come a dirmi di non confondere il lavoro con l’ospitalità. Lo ringraziamo, lo salutiamo e partiamo per Khorog.  L’autista vorrebbe aspettare almeno un paio di passeggeri in più ma dopo 5min di attesa e non vedendo nessun potenziale cliente all’orizzonte, decidiamo di fare i ricchi occidentali, paghiamo noi per gli assenti e si parte.

Khorog è una cittadina molto viva, un ampio bazar, un bel parco cittadino, un vero supermercato e tanta gente: l’ultimo bagno di folla prima del Pamir vero e proprio, dove la densità di popolazione è di 3persone per kmq (e sicuro che la media comprende Khorog, sennò dove le trovi tutte queste persone?).  Andiamo al Pamir lodge, tante stanze intorno ad un bel giardino, dove laviamo e stendiamo e dove ci sono parcheggiate un bel po’ di biciclette che vengono messe a punto dai loro proprietari prima di affrontare le vere montagne e dopo essersi fatti la strada massacrante da Dushanbe. C’è anche Marco, madre toscana (si sente dal suo accento quando parla italiano) padre iraniano, nato e cresciuto in Germania, da nove anni vive a Dubai. Ha deciso di mollare tutto e prendersi un po’ di pausa, ha inforcato la bicicletta ed è partito. Da qualche mese; la sua intenzione è arrivarci fino in Giappone, poi si vedrà. Ci sono ciclisti tedeschi, belgi, americani. Poi c’è Mihail, un video-blogger russo che è diretto in Afghanistan, o quanto meno ad Eskashim, appena oltre confine, tanto quanto basta per il timbro sul passaporto della sua collezione (ha detto proprio così). Ne ha 67, e quello dell’indomani sarà il suo 68esimo.  Al lodge incontriamo Alik (nome esteso Alisher) che sarà nostro inseparabile compagno di viaggio per i successivi 8 giorni. Lui e la sua Toyota Land Cruiser bianca. 

Alik è un bravo ragazzo, diligente, attento come autista, accondiscendente per quanto riguarda le nostre richieste (fermati qui, andiamo di lì) peccato che il suo inglese sia così limitato che ci impedirà di avere uno scambio approfondito quanto vorremmo ma in fondo non si può avere tutto. Poi è un musulmano osservante anche se tollerante e osserva il Ramadan. All’inizio il bere e lo sgranocchiare durante il giorno davanti a lui ci mette un po’ in imbarazzo, poi ci abituiamo, in fondo..cazzi suoi, chi è causa del suo mal (o del suo ben, come vi pare) pianga(o rida) se stesso.

Il giorno dopo partiamo, andiamo a sud, verso Iskashim, continuiamo a costeggiare il fiume-frontiera. Prima tappa, le sorgenti di acqua calda di Garm Chashma. Ci si bagna tutti nudi, due ore per i maschi, due ore per le femmine.

Fortunatamente arriviamo al momento giusto e ci facciamo un bel bagno rilassante.  Proseguiamo. Arriviamo ad Iskashim solo per avere conferma che il mercato afgano, quello che si faceva una volta oltre confine e dove gli abitanti delle due sponde del fiume avevano la possibilità di incontrarsi almeno una volta a settimana, è chiuso da un paio di anni, dalle tensioni causate dall’apparizione di Talebani nella zona. Pazienza. Sosta pranzo trangugiando (noi, mica Alik) una buona zuppa Borsch e si riparte. Strada facendo ci accostiamo per parlare con un camminatore solitario. E’ francese, ha passato la sessantina. Era un ciclista una volta poi si è rotto e se la fa a piedi, va fino a Murghab, un 600km più lontano. In mezzo, praticamente il nulla. Gli chiediamo se ha bisogno di qualcosa, ci dice di no, tranquilli, ci sono un sacco di torrenti dove attingere l’acqua e cibo ne ha, così come una tenda. Gli auguriamo buon viaggio e proseguiamo facendo tanto di cappello a siffatta forza di volontà. 

Prima di fermarci per la notte a Yamg ci facciamo un bagno in un’altra sorgente di acqua calda, quella di Bibi Fatima, in compagnia dei locali. Al ritorno diamo uno strappo ad una giovane coppia di tedeschi, in giro in bici per questa parte di mondo che hanno posato il loro mezzo di locomozione e hanno deciso di farsi una passeggiata. Hanno cominciato in Cina dove sono stati in viaggio 3 mesi. Passati in Kazakistan, Kirghizistan dove, aspettando lo scioglimento delle neve dagli alti passi, hanno lavorato in cambio di alloggio in una stazione sciistica kirghisa che, a quanto pare ha ottime piste, buoni impianti di risalita (benché lenti) e dove skypass e alloggio costano un decimo di quello che si spende in Austria. Trovando un biglietto a basso costo, e li si trovano, è convenientissimo per i pionieri europei che infatti, ci dicono, sono in costante aumento. Continuano a pedalare e il progetto è quello di tornarci a casa in Germania, attraversando Azerbaijan, Georgia, Armenia, Turchia, Grecia e Italia. Magari ci si vede l’anno prossimo quando passate da casa. Parlano in russo con i locali. Gli chiedo se lo sapevano già o se l’hanno imparato strada facendo; la risposta è la seconda. Grandi ragazzi, siete due miti.

La sera a Yamg stiamo nella homestay di Aidar, un simpatico 63enne un po’ logorroico anche se la scarsa conoscenza dell’inglese gli impedisce di dialogare tanto quanto vorrebbe. Gli chiedo del servizio militare nell’armata rossa. Era telegrafista in Kazakistan, in un posto impenetrabile, con tanti cerchi concentrici di sorveglianza armatissima. Ci facevano gli esperimenti nucleari (me lo dice ancora a bassa voce).  Quando va via la luce getto un occhio per vedere se si illumina di verde ma no, i due anni lassù non hanno avuto quest’effetto. La cena è abbondante e la marmellata di albicocca della figlia è semplicemente squisita. Aidar è pronipote della persona più illustre di Yamg: un filosofo musicista astronomo e non so che altro. Di buon mattino andiamo con lui a vedere l’orologio solare e la sua casa museo, zeppa di libri e di improbabili strumenti musicali a corda che Aidar ci suona con puro trasporto.

Saldiamo il conto (17eur a testa per dormire, cena e colazione) e ci congediamo con grandi strette di mano. Ci offre anche il pranzo al sacco, pomodori, cetrioli e un super termos di tè.

Ci fermiamo alla cittadina successiva per un’escursione a piedi di un paio d’ore per raggiungere la fortezza (Qala) fra pascoli, fiumiciattoli e mucche. La Qala è un cumulo di macerie, ma la vista è superba. Si riparte, lasciamo la verde valle del Wakhan e saliamo, costeggiando non più il fiume Panj che ci è sfilato accanto per tanti km ma il Pamir, suo affluente. Saliamo fino a 4300m tra paesaggi mozzafiato di montagne di tutti i colori. Passiamo in mezzo a mandrie, incontriamo una carovana di cammelli

 (a proposito, mucca in russo si dice “carova”, chissà se il termine “carovana” viene proprio da lì), sfioriamo laghetti limpidi e arriviamo a Bulunkul, 30 case in mezzo ad una enorme conca. Si dice sia il posto più freddo del Tajikistan. Scendiamo prima e ci facciamo a piedi gli ultimi 5/6 km. Il paesaggio è troppo bello per farcelo passare accanto così velocemente.

 Arriviamo nel villaggetto, non vedo la macchina. Fra la masnada di ragazzini che ci sono venuti incontro al nostro arrivo scelgo un piccoletto sordomuto per portarmici, assoldato in cambio di ben 2 pacchetti di patatine acquistate nel negozietto/spaccio del paese. La macchina era nascosta dietro la yurta (la ampia tenda circolare di cui è piena la Mongolia) di proprietà dei nostri ospiti di stasera, una famiglia kirghisa con gli occhi chiarissimi.

Le tre ragazzine ci scrutano con curiosità mentre aiutano la madre a prepararci il letto, ad accendere il fuoco, a preparare il tè.  Mi faccio un giro per il paese, bellissimo alla luce bassa del crepuscolo. Il ragazzino delle patatine appena mi vede mi viene subito a prendere per farmi partecipare alla partita di pallavolo in corso nella polverosa via principale del paese, dotata, in fondo, di una rete da pallavolo vera e propria. 20 contro 20, età media direi sugli 11 anni (e perché la alzo notevolmente io..). Partita combattuta, se non fosse che i ragazzini sono volubili, vengono attratti da qualcosa che li distrae, si muovono in massa e a volte alzo la palla e, non essendoci più nessuno, la vedo cadere in terra e rimbalzare solitaria.. ma..? Vabbè, si cambia, partita a calcetto, stesso campo. Partita con difficoltà, nel senso che bisogna ricordarsi che prima di varcare la linea di centrocampo bisogna abbassarsi repentinamente per non correre il rischio di avere la rete di pallavolo stampata in faccia. Gioco un po’ poi… un po’ i 4200m, un po’ i tanti ragazzini che vanno e vengono.. saluto tutti e continuo il giro fino ad arrivare a “casa” in tempo per la cena. Ottimo pesce del lago qui vicino, patate condite con maestria e yogurt. Riusciamo anche a ricaricare gli apparati elettronici grazie ad una provvidenziale batteria da macchina. Mi chiedo perché non arrivi l’elettricità visto che sono centinaia di km che vedo pali della luce che ci sfilano accanto senza sosta, un po’ come il fiume. Da quanto riesco a capire, risalgono ai tempi dei sovietici ma andati loro, sparita anche l’elettricità (??). La cosa che mi sorprende è che, in una terra così alta dove gli alberi non crescono, non abbiano fatto fuori tutti i pali per averne del combustibile. Ma forse sono semplicemente più lungimiranti di me e aspettano pronti il momento in cui l’elettricità tornerà. Nel frattempo il combustibile che usano lo si vede ammassato fuori dalle case e sui tetti: è sterco di vacca e di yak essiccato che non puzza neanche più di tanto.  Comu

nque, un po’ grazie al fatto che la prima lampadina vera e propria si accende molto lontano, un po’ grazie all’altezza, quando fa buio mi godo uno spettacolo fantastico. Ci si stupisce sempre nel constatare quanti milioni di stelle ci siano davvero lassù. E quanta infinitesima parte ne vediamo di solito, nelle nostre longitudini. Tornato a casa guardavo il carro dell’orsa maggiore da solo lì in mezzo e me lo vedevo a Bulunkul, immerso in migliaia di altre stelle più piccole, la via lattea, tutte le costellazioni.. Vado a letto poco prima che scatti un micidiale torcicollo, sempre più sentendomi parte del miracolo della natura, le stelle, le montagne colorate, i laghi turchesi… cioè l’universo…cioè gli impulsi cosmici …. Vabbè, Buonanoottee!!!!  Quando la mattina alle 7 ci tuffiamo sulla ricca colazione con uova e wurstel, mi sono già fatto un’escursione al lago lì vicino, impantanandomi fino ai polpacci nella palude, visto che ho voluto prendere la strada più breve.

Ripartendo, ci inerpichiamo un po’ e la vista delle montagne riflesse nel lago sono eccezionali.  Da lì a Murghab non c’è molta strada, dopo una piccola sosta per visitare una non meglio specificata antica tomba cinese si arriva a destinazione, accompagnati con continuità dalla vista di migliaia di puntini arancioni ai lati della strada, le marmotte che non ci abbandoneranno mai fino alla frontiera.

Murghab è la cittadina più grande della provincia anche se, senza frazioni, fa 7000 abitanti. Ed è brutta. Un ammasso polveroso di case informi attraversata da due strade asfaltate parallele. Niente di interessante da vedere a parte una piccola statua di Lenin che ha resistito imperitura ai grande cambiamenti geo-politici degli ultimi 25anni.  Nella homestay dei genitori di Gurlana (la sorella di Alik) incontriamo Santiago(spagnolo) e Annamaria(romena) che sono qui per un progetto di ripopolamento degli Yak e girano da queste parti per dargli vita, non ho ben capito come ma ormai non mi stupisco più delle idee e dei programmi della gente che incontro in giro per il mondo. Passiamo il pomeriggio a chiacchierare e a bere chai e la sera andiamo a cena con loro, con Gurlana, i suoi genitori e sua figlia di un anno e mezzo. Il padre di Gurlana, un attempato kirghiso con tanto di alto cappello tipico, mi racconta tramite la figlia che parla inglese molto bene a differenza del fratello, che ai tempi dei sovietici le moschee erano chiuse e pregavano di nascosto e con molta cautela. Adesso finalmente possono farlo apertamente, osserva il ramadan e per questo lui e la moglie arrivano che noi la cena l’abbiamo già iniziata (sempre per il discorso di prima che nessuno deve condizionare l’altro nelle sue scelte, no?) Mi dice anche, rispondendo tramite Gurlana alle domande di questo straniero curioso, che i due anni di militare li ha fatti in Ucraina, dal 74 al 76. Con le dovute proporzioni doveva essere un po’ come andare dalla Sicilia al Friuli, anche se l’opzione Siberia (‘o vero Friuli) se l’era scampata. La mangiata è ottima e ci concediamo anche una birra con Santiago. In effetti erano un po’ di giorni che si andava avanti ad acqua e tè.A fine cena si canta, si canta l’unica canzone che conosciamo tutti, quantomeno le prime due strofe. Eh si,perché tale canzone esiste e grazie a Toto Cutugno c’è qualcosa che ci fa sentire simili a gente altrimenti distante anni luce. “Sono un italiano” è conosciuta da tutti e fa del suo cantante l’italiano più conosciuto in Tajikistan seguìto a distanza siderale da Celentano e Albano, finiti a pari merito con il commissario Cattani (Michele Placido in “La Piovra”). Dei calciatori, che una volta spopolavano, solo Buffon ha ricevuto una nomination nel mio personale sondaggio. Finita la cena, Santiago resta nell’unico albergo di Murghab perché ha problemi di schiena e bisogno di un letto con materasso vero. Noi ritorniamo al nostro giaciglio fatto di coperte per terra a cui ormai ci stiamo abituando. E si dorme bene, a parte la solita interruzione notturna con corsa al bagno temendo di non arrivare in tempo, rituale che mi perseguita da quando abbiamo lasciato Dushanbe. Il bagno a proposito, è bellissimo. Il solito parallelepipedo sghembo (di mattoni di fango, non di legno stavolta) ma al suo interno, il buco sotto cui si spalancano le porte dell’inferno è sormontato da una vera e propria tazza, appoggiata lì sopra per il comfort degli stranieri che passano di qui e che, come me, apprezzano molto, soprattutto a quell’ora di notte quando lo sforzo dei quadricipiti nell’accovacciamento risulta particolarmente pesante. La tazza ovviamente è svuotata del suo interno, quello che ce la fa apparire bianca anche dentro, la destinazione finale del tutto, in fondo, è sempre l’inferno là sotto per cui… occhio a non giocare troppo col cellulare lì sopra, eh? Tenerlo sempre stretto in mano.

La mattina dopo ci svegliamo e facciamo un giro in paese. Per le strade di Murghab le macchine che girano e che non sono 4×4, sono vecchie Lada o similari che un po’ ci ricordano le nostre Fiat 124 e l’anno di fabbricazione sarà più o meno lo stesso. Però in quei tempi qui non bisognava esagerare in fantasia e in diversità. Sono tutte beije. Mica che uno la mattina si svegliava e sceglieva il colore che voleva. In USSR?

Compriamo gli ultimi Somani tajiki (la pecunia), facciamo un giretto in uno squallido bazar fatto di container mollati lì da chissà chi, chissà quando. Giacomo trova comunque occasioni fotografiche, io torno alla homestay e mi faccio una bella chiacchierata con Gurlana mentre tutta la famiglia è lì a preparare i manicaretti per la festa del giorno dopo (metà-ramadan o qualcosa del genere) quando inviteranno tutti i parenti a casa a mangiare e quando ammazzeranno anche la pecorella in cortile che mi guarda e mi bela ogni volta che mi vede passare e che, da quando ho saputo il suo prossimo fato,la guardo con occhi diversi “hai un giorno di vita, tu non lo sai ma io si..”. Gran donna Gurlana, uno scricciolo che peserà 40kg ma con una gran forza; ha sempre avuto il sogno di lavorare con i turisti e assaporare un ambiente internazionale e ce l’ha fatta anche se questo ha comportato, in una società chiusa come la sua, l’essere messa all’indice dal paese ed essere tacciata di puttana quando andava a portare i turisti a fare le escursioni, magari dormendo la notte fuori. Per questo ha perso anche il marito, molto geloso e più soggetto di lei alle pressioni esterne. Quando Gurlana si è trovata a dover scegliere tra il matrimonio (e la vita da mamma-casalinga) ed il suo lavoro, non ha avuto esitazioni ed ha scelto il secondo. E con questo dà lavoro anche a gran parte della famiglia, chi porta a spasso i turisti, chi gli dà ospitalità etc.. Ed è contenta così, mamma single di Adelia che ha poco più di un anno e crescerà in un contesto sicuramente diverso da quello in cui sono cresciuti i genitori.

Dopo il lauto pranzo lasciato lì a metà (scusa Gurnala ma era veramente troppo, io pensavo di dimagrire in questo viaggio…),

si parte verso nord alla volta di Karakul, paesino desolato sulle sponde del lago omonimo. Alloggeremo a casa dei suoceri della sorella di Gurnala (ecco, per l’appunto) e la sera mangiamo con gli altri occidentali di passaggio da quelle parti, Markus di Zurigo che fa più o meno il nostro giro, e Alexandra e Carla, madre e figlia che vivono a Tashkent, in Uzbekistan da 5 anni. La madre è portoghese e insegna alla scuola internazionale, la figlia una vera cosmopolita: padre inglese, è cresciuta a Londra, poi a Berlino e ora vive da 5 anni in Uzbekistan. E lei ne ha solo 17, e parla un sacco di lingue.

La mattina dopo salutiamo la compagnia che prosegue verso nord e ci facciamo portare da Alik nella penisola che penetra fino a metà lago.  Abbiamo trovato un foglio nella homestay, scritto da ospiti che sono stati lì prima di noi che consigliano questa escursione a chi avesse un giorno in più da spendere a Karakul. Noi ce l’abbiamo. E ci andiamo. Si tratta di scalare la montagna più alta della penisola. La via per la vetta però non è indicata bene, non ci sono sentieri e anche la jeep gira a vuoto. Prima di arrenderci scaliamo la montagnetta vicino a dove ci siamo parcheggiati. Da lì ne vediamo una più in alto e dalla cima di questa vediamo la più alta di tutte. E’ una bella scarpinata ma ci andiamo lo stesso e la ricompensa è enorme. Si vede il lago con la sua acqua turchese e oltre, i picchi innevati di montagne che superano i 7000m. Tutto questo a 360°, che puoi farne solo 180 alla volta e poi fermarti a respirare, a incamerare quella vista così bella ed elaborarla, prima di proseguire con il giro a tutto tondo.

 Scesi giù ci fermiamo sulle sponde del lago per vedere se è il caso di farci una nuotatina ma è davvero troppo fredda e torniamo a Karakul nel pomeriggio. Mi faccio due passi per il paese e mi fermo a parlare (…) con un muratore mentre lavora con poca lena circondato da tre amici. “Atkuda”? Mi dice in russo che ormai ho imparato che significa “da dove vieni” (in cirillico отку́да) “Italia”. “ahhh”. Mi fa capire a gesti di voler sapere quanto prende una sua controparte lavorativa in Italia e gli sparo un 1500 dollari al mese. E’ estasiato. Mi dice che gli piacerebbe andare in Russia a lavorare, o in Turchia, dove prenderebbe 600$. Ma anche in Kazakhistan (500), perché qui ne prende 100. Tutte queste cifre vengono scritte sulla terra con un bastoncino per renderle comprensibili l’uno all’altro.

La sera ceniamo con i nuovi ospiti della locanda, Walter e Francis, canadesi sulla settantina, entrambi insegnanti. Sono andati in pensione presto (Walter a 52 anni) e invece di stare a casa a girarsi i pollici hanno risposto ad un annuncio dell’international school mirante a reclutare insegnanti da mandare in giro per il mondo. Sono stati in USA, al Cairo e a Londra prima di andare a Tashkent (guarda il mondo com’è piccolo, sono colleghi di Alexandra la portoghese ed insegnanti della figlia Carla). Ora fanno questo impegnativo giro in Pamir prima di tornarsene a casa per sempre. Walter è sofferente, un po’ troppo sbattimento per la sua età e la sua panza. Li rivedremo la mattina dopo alla frontiera Kirghisa e al campo di yurte, ultima tappa dura prima di arrivare alla grande città con alberghi di lusso e letti come si deve; dai Walter, un ultimo sforzo).

La mattina si riparte verso la frontiera. Strada in salita per affrontare un passo situato a 4400m e lanciamo un’ultima occhiata indietro, congedandoci dal lago karakul, dal Pamir e dal Tajikistan.  Arriviamo alla frontiera, o per meglio dire LE frontiere, perché le fermate sono molteplici: prima c’è la dogana, dopo un po’ c’è il controllo contro il narcotraffico dove l’ufficiale di servizio è Raul, barba nera e occhi verde chiaro che incredibilmente parla un inglese discreto ed ha una gran voglia di fare amicizia e 4 chiacchiere. Ci dice che controlla che non passino oppio, eroina e marijuana, sulla rotta Afghanistan-Tajikistan-Kirghizistan-Kazakistan-Russia. Si mostra parecchio tollerante sulla marijuana perché è roba naturale, mentre dell’eroina ci dice che è chimica e fa schifo. Ci trova d’accordo e ci invita a bere il latte di giumenta fermentato che gli hanno appena portato in una bottiglia di coca-cola di plastica. Ce lo versa in un boccale di vetro a dir poco opaco, ma come si fa a rifiutare di suggellare così questa bella e nuova amicizia? L’impatto col latte è preoccupante, ha il sapore acido del caglio però il retrogusto che lascia non è affatto male. Raul dice che è ottimo per la nostra salute, che pulisce tutto e per dimostrarci quanto ci vuole bene, ci va a riprendere tutta la bottiglia e ce la regala. Ci facciamo la foto davanti ad un insegna di cui non conosciamo il significato e ci congediamo con grandi strette di mano ed abbracci, felici di constatare che lo faceva davvero in amicizia, senza secondi fini di sorta. Poco più avanti, altro stop, gabbiotto dove Alik entra ed esce con i nostri passaporti timbrati senza che a noi guardino neanche in faccia e si prende la discesa, in una interminabile terra di nessuno di 20km che ci porterà alla frontiera kirghisa. Il paesaggio, già ora, cambia drasticamente. I fianchi delle montagne che ci accompagnano non sono più marroni ma verdi, come se il grande giardiniere kirghiso innaffiasse spesso le sue montagne, a differenza del collega tagiko. Tutta la vallata è verde, era un po’ che non vedevamo quel colore e ci sembra spettacolare, ma in questo viaggio ogni giorno è stato un nuovo spettacolo per gli occhi. Alla frontiera kirghisa l’attesa è lunga. Pare ci sia un problema al terminale. Aspettiamo insieme ad altri 4 fuoristrada (uno che porta Walter) e 5/6 ciclisti che avevamo sorpassato strada facendo. Dalla parte opposta entrano una ciclista solitaria che si ferma a scambiare consigli di viaggio con i ciclisti in direzione opposta, e una ragazza a bordo di una grossa enduro con targa tedesca che passa salutando ma senza fermarsi. Finisce l’attesa, passiamo un paio di controlli e siamo davvero nel verde Kirghizistan. Abbiamo deciso di fare una sosta prima di arrivare ad Osh, giriamo a sinistra e prendiamo una gran bella strada asfaltata vera e propria su cui si può andare addirittura a 120kmh, velocità che le strade impervie fin qui percorse non ci avevano mai permesso di raggiungere finora. Lasciamo ancora una volta l’asfalto e dopo una trentina di km di strada sterrata arriviamo ad un campo di yurte in un luogo chiamato Tulpak kol da dove si può proseguire a piedi (o a cavallo o a mulo) per arrivare al campo base del Picco Lenin (7134m) che sulle mappe tajike è segnato come picco Ibn sina, su quelle kirghise non mi ricordo ma che da una parte e dall’altra del confine continuano a chiamare col vecchio nome sovietico. Ad un paio di km dall’arrivo, avendo già avvistato il campo, scendiamo per farcela a piedi perché la vista, ancora una volta è mozzafiato.

Montagne violaverdimarroni e bianche per la neve residua fanno da sfondo a collinette basse e verdi e tonde, separate da decine di laghetti più o meno grandi di acqua limpidissima. Andiamo verso il campo di yurte superando una collinetta dopo l’altra e girando intorno ai laghetti che le dividono e arriviamo estasiati e felicissimi di aver deciso di venire fino a qui. Prendiamo l’immancabile chai di benvenuto mentre aspettiamo che arrivino i cavalli per andare al campo base del picco Lenin e nell’attesa comincio una partita a scacchi con Talip, il ragazzetto che lavora lì, aiutando soprattutto con le traduzioni visto che un po’ di inglese lo sa, ma una raffica improvvisa di vento fa volare via tutti i pezzi (avrei vinto, sicuro). E’ la premessa di un peggioramento del tempo e quando arrivano i cavalli non è proprio più il caso di andare fin lassù. Per non aver fatto venire a vuoto il “cavallaro” ci vado comunque a farmi un giro, con Talip prima e con Giacomo poi, su e giù per le collinette in modo da pagargli almeno un’ora (3eur a cavallo) e gli do appuntamento alla mattina dopo, tempo permettendo.  Poi si annuvola di brutto e comincia a piovere davvero, per la prima volta da quando siamo partiti. Comincio a capire perché il Kirghizistan è così verde..

La mattina arriva ed il tempo è bello (più o meno). Abbiamo dormito nella yurta tutta per noi. Solita interruzione biologica a metà notte ma ormai ci ho fatto l’abitudine e mi preparo tutto prima (torcia, carta igienica, acqua, quadricipiti in forma), e la mattina sveglia all’alba per non perdere neanche un minuto dello spettacolo: Su, sulle colline col sole che nasce. Si scende, colazione con le solite uova fritta e alle 8 puntuali, arrivano i cavalli e si parte. Si sale un po’ poi si scende una piccola vallata con in fondo un fiume piccolo ma impetuoso con un ponte un po’ sconnesso che i cavalli non vogliono attraversare. Dopo qualche tentativo ci si rinuncia, la nostra guida lo guada con tutti e tre i cavalli, cosa a mio avviso molto più pericolosa dell’attraversamento del ponte, e noi ce lo facciamo a piedi sul ponte. Si risale il pendio scosceso e ci ritroviamo in una valle ampia e verde che risaliamo tutta fino ad avere una magnifica vista sulla cima della montagna e sul ghiacciaio

che da essa scende. Al ritorno ci fermiamo al campo base che dei russi stanno allestendo. Aspettano degli scalatori occidentali. Partiranno con 10 giorni di ritardo rispetto al previsto perché c’è troppa neve e non è cosa. In effetti quando finalmente le nuvole lassù se ne vanno e ci lasciano vedere la montagna per intero, la vediamo bianca compatta, ti dà l’idea che di neve ce ne siano diversi metri. Torniamo giù, il mio cavallo si è fatto coraggio ed è l’unico che passa sul ponticello di legno. Gli altri due guaderanno il fiume.

Appena tornati alle yurte che cosa ci aspetta?   Un buon chai, come no? Saldiamo e partiamo. Direzione Osh, la seconda città più grande del Kirghizistan e si scende, si scende dall’altopiano del Pamir, in poche ore passeremo da 4200m a 900. Due o tre soste per ammirare le montagne colorate le facciamo, facciamo foto per portarcele dietro ma l’effetto non è lo stesso. La strada è ottima fino alla fine, asfalto liscio e niente buche e procediamo veloci anche perché posti di blocco e di relativa mancia ai poliziotti qui, a differenza del Tajikistan non ce ne sono. Il Kirghizistan si è scrollato di dosso le pecche da socialismo reale molto più in fretta del vicino Tajikistan. Qui la partecipazione democratica è attiva, i governanti cambiano, quelli che non vogliono rassegnarsi vengono cacciati a furor di popolo. In Tajikistan c’è sempre lo stesso presidente dal ‘91. Le arterie principali sono ben asfaltate, le case sono più belle, meglio costruite. E’ più… capitalista. E del capitalismo ha anche le scorie, tipo una più marcata disparità sociale. I mendicanti che vediamo nella città, per la prima volta in questo viaggio ne sono la testimonianza. A Dushanbe non ce n’erano. Il lavoro, per quanto umile c’era per tutti. In piena notte vedevi eserciti di spazzine per strada. Arriviamo a metà pomeriggio nella brulicante Osh, l’improvvisa impennata della densità di popolazione ci colpisce ma anche qui domina il verde, gli alberi (toh, chi si rivede), i parchi, e l’effetto è piacevole. L’ostello prima scelta è pieno e ripieghiamo sulla seconda, come al solito: andiamo all’Osh Nuru, albergone in stile sovietico semi rinnovato, con tanto di piscina e di wi-fi, perlomeno quando c’è la corrente. Ci congediamo da Alik, con grandi abbracci, lo lasciamo tornare da sua figlia di 10 mesi che si chiama, guarda un po’, Asia. Gli regalo la mia felpona che avevo comprato prima di partire per il freddo in altura ma che ormai non mi serve più e occupa solo posto nello zaino.

La mattina dopo la passiamo al mercato che il libro dice essere uno dei più grandi dell’Asia centrale anche se le atmosfere del mercato del bestiame di Kashgar sono lontane. Pieno di abbigliamento e di cinesaglia varia ed è solo l’assenza di turisti che garantisce un certo alone di autenticità al luogo. Compro una spilletta di Lenin in una bancarella che vendeva rimasugli di epoca sovietica. Solito piccolo mercanteggiare a cui il proprietario, chissà perché, non era poi così abituato, mi guarda divertito mentre passo dall’ultima sua offerta (100) al tono definitivo con cui gli dico “ok, ok, 90” e mi dice “you Israel?” Rido e gli dico in perfetto romano “ma pensa te, me stai a da’ del rabbino?”. Comunque accetta, affare fatto.

All’interno del Bazar trovo anche una bancarella con un tizio giovane che armeggia con arnesi davanti a telefonini aperti. Si dice disposto a cambiarmi in un paio d’ore il vetro del mio telefonino, spaccato da tempo. Breve contrattazione sul prezzo, fatta ancora una volta a partita di ping-pong con la sua calcolatrice che faceva avanti e indietro sulle nostre mani e che vedeva i numeri che ci digitavamo sopra a turno avvicinarsi piano piano. L’incontro lo troviamo a 1800som, l’equivalente di 24eur. Il cinese vicino casa me ne aveva chiesti 60. Ripasso due ore dopo ed il lavoro e fatto. Finalmente, almeno per un po’ non dovrò più leggere i messaggi tra una crepa e l’altra.  

Verso sera andiamo a visitare l’attrazione principale del posto, un’attrazione naturale, in una città che dal punto di vista architettonico lascia un po’ a desiderare: è il Suleiman Too, una montagnetta che si staglia enorme proprio in centro città, ha importanza di carattere religioso (pare che Maometto ci abbia pregato, una volta) e l’immancabile bandierone Kirghiso piantato su, alla sommità di una salita di buoni 20 minuti su cui arranchiamo con fatica, soprattutto Giacomo, il cui organismo va in palla qualche ora prima del mio.

Arrivati in città avevamo detto ai nostri gloriosi anticorpi che il peggio era passato e potevano rilassarsi ma abbiamo fatto male. La colpa viene attribuita ora ad un gelato, ora ad una fetta di anguria risciacquata con acqua maledetta (e secondo me la maggior imputata è la seconda), fatto sta che il giorno dopo lo passiamo quasi interamente in stanza con brevi sortite fuori. Mi arrendo alla scienza farmacologica e prendo tachipirina e antidiarrea, che in poche ore sistemano tutto.

Decidiamo comunque di evitarci il lungo e massacrante viaggio di dieci ore stipati in una Marshrutka fino alla capitale Bishkek e ci compriamo un biglietto aereo con la Air Manas, 32eur e 35minuti di volo. In agenzia c’è un inglese vestito da ciclista. Gli chiedo se si è portato la bicicletta in aereo, mi dice di no, che ci è partito da Londra. Gli chiedo quando ha cominciato il viaggio e mi fa “..ehmm April Last year..”, 15mesi fa! Grande!!

La mattina dopo, l’airbus 320 ci porta freschi freschi a Bishkek. Il tassista abusivo che ci porta in città stavolta è Sartif, un omone di origini curde.

L’hotel prima scelta è chiuso da tempo e tanto per cambiare ripieghiamo sulla seconda dal nome altisonante: l’hotel Rich. Si, è una categoria superiore ma nemmeno tanto caro, e poi è l’ultima notte, trattiamoci bene.

Io esco subito e me ne vado in giro per vedermi la capitale. Passo dallo stadio dello Spartak che vado a vedere dall’interno perché, come già successo ad Osh, l’inserviente che mi vede aggirarmi lì intorno, invece di cacciarmi in malo modo, mi porta direttamente dentro. Attraverso il curatissimo parco/Luna Park cittadino, resto purtroppo chiuso fuori dal museo nazionale chiuso per Perestroika (ristrutturazione) e arrivo nel Ala Too, la piazza principale dominata dalla statua equestre di Manas, usurpatore del piedistallo che fu di Lenin fino al ’91. La statua del piccolo padre in realtà non è stata distrutta ma solo spostata in posizione più defilata.

Come a dire che in fondo non era così cattivo ma magari ci sono personaggi che per il Kirghizistan hanno fatto più di lui anche se sulla scena internazionale sono un po’ meno conosciuti (chi cazzo è Manas?).

Bishkek non è bella ma come capita spesso da queste parti, camminarci è piacevole. A parte l’aria moderna e il tocco glamour che sfoggiano tutte le capitali di stato, è pulitissima, i viali sono ampi con tantissimo verde sia nei viali che nei tanti parchi cittadini anche se la cosa può avere i suoi risvolti negativi: ero seduto su una panchina di un parco centralissimo a sfogliare la guida quando è arrivata una bufera di vento; raffiche improvvise e fortissime che facevano ondeggiare minacciosamente le fronde sopra di me e mi consigliavano di alzare in fretta le chiappe e farmele spostare nella vasta e rassicurante colata di cemento della piazza centrale proprio mentre assistevo ai primi rumorosi crolli di legno e foglie. Il TG kirghiso che ho visto dopo in albergo (toh, la televisione!) confermava con tanto di immagini (e chi lo capiva, sennò?) i danni che la bufera aveva fatto in città.

La sera vado per mangiare in un ristorante che hanno consigliato alla reception ma è troppo chicchettoso e troppo affollato per i miei gusti, ripiego su un kirghiso-cinese vicino all’hotel dove sono più o meno l’unico cliente e dove l’incomunicabilità è totale. A gesti ordino qualcosa che non so neanche cosa sia, e il dubbio resta anche quando lo vedo. Ne mangio metà e me ne vado a dormire che l’indomani la sveglia alle 4 sancirà il ritorno a casa. Almeno così pensavamo. Invece la Turkish non ci carica. L’aereo è pieno ed arrivano proprio tutti. Per chi viaggia stand-by come noi questo rischio c’è sempre ma fortunatamente hanno un altro volo nel primo pomeriggio, quello che origina dalla Mongolia e lì di posto ce n’è. Ce ne torniamo in albergo, al cui personale avevamo prudentemente detto di non rifare la nostra camera almeno fino alle nove. Misha, autista abusivo 57anni, dagli occhi chiari e simpaticissimo con cui si chiacchiera (in qualche modo) lungo tutto il viaggio (ci tornerà anche a prendere qualche ora dopo) ci racconta di quando c’era la base Nato e del modo in cui percepiva il carattere delle varie nazionalità portando i soldati in città a far baldoria: olandesi, tedeschi, danesi facevano il viaggio in silenzio, guardando fuori; ogni tanto qualcuno diceva qualcosa e gli altri annuivano. Gli italiani, a turno c’era sempre qualcuno che parlava. Gli spagnoli parlavano tutti e 4 insieme, dall’inizio alla fine del viaggio.

Si ritorna in aeroporto e stavolta si parte davvero, ci guarderemo dall’alto quelle montagne che ci hanno folgorato guardandole dal basso. In kirghiso l’augurio di buon viaggio si esprime con “Ak Jol” che letteralmente vuol dire “strada Bianca”. La strada bianca era sinonimo di strada liscia, buona, senza intoppi, frane o allagamenti, ed è quello che si dice sempre a qualcuno quando parte. Ak Jol, al prossimo viaggio