Georgia e Armenia 19

Si ritorna nell’ex-Urss, 20anni dopo Terzani; pian piano seguiamo le sue orme per vedere quanto è rimasto dell’impero sovietico e soprattutto quanto e come è cambiato.

Volo diretto da Malpensa a Kutaisi, la seconda città della Georgia. Lo fa la Wizz Air ad un prezzo stracciato. Al check-in trovo Brunella che mi conosce bene e non mi chiede neanche il passaporto. Mi convince a spedire il bagaglio che pensavo di tenere a mano, perché girare con quel peso sulle spalle, mi dice. E va bene, lo spedisco ma ho una strana sensazione di disagio, chissà perché.  Passo i controlli di sicurezza, mi avvio verso il controllo passaporti e improvvisamente lo capisco il perché: ho lasciato il passaporto nello zaino che non pensavo di spedire !!!!

Devo attivarmi subito: dunque, manca 1 ora alla partenza ma 45 minuti alla chiusura dell’imbarco. Cosa faccio, contatto il responsabile dell’area bagagli? Se mi faccio rimandare il bagaglio sul nastro lo riprendo e ritorno su; sì ma quanto ci vuole, non ce la faccio. Trovo qualcuno che conosco e gli chiedo di frugarmi nella tasca e… No, non lo farà mai. Merda, forse l’agente rampa, se trovo un agente rampa che conosco, magari… sì ma i controlli come li passo?..

Poi. Improvvisamente. L’illuminazione. 

Nei forum sulla Georgia che avevo leggiucchiato qualche giorno fa, c’era o non c’era scritto che un italiano in Georgia c’entra anche solo con la Carta d’Identità? Ma sì che l’ho letto, me lo ricordo perché mi aveva stupito. E allora è fatta, la Carta d’Identità ce l’ho nel portafoglio, passo i controlli, mi accerto solo che i bagagli siano tutti caricati e si parte.

La Wizz Air se non paghi non ti dà neanche un bicchier d’acqua e i sedili non si reclinano ma per essere una low cost lo spazio tra i sedili è decente e le quasi 4 ore di volo passano in fretta, leggendo e documentandomi un po’ sui posti che vado a visitare.

Al controllo passaporti (e carte d’identità) l’agente mi fa entrare senza problemi e mi regala una bottiglietta di vino georgiano da 33cl, con l’etichetta che dà il benvenuto al “gradito ospite” in questa terra e prosegue descrivendola come la patria del buon cibo, del buon vino e dell’ospitalità. Bella quest’accoglienza.

All’uscita dell’aeroporto si comunica in qualche modo e senza fretta con i pochi tassisti abusivi che senza assillarti più di tanto ti offrono i loro servigi e alla fine ce ne andiamo con Waco a cui, in qualche modo, chiediamo anche consiglio su dove poter passare le prime due notti in Georgia. Capito il budget, ci porta al King Hotel, una specie di Motel che sicuramente in estate vede più traffico e ci sistemiamo in una stanza con 5 letti tutta per noi, ad una breve passeggiata dal centro sulla sponda del fiume Rioni (ci mettiamo un po’ a capire che Rioni è proprio il nome del fiume e non il georgiano per fiume). Posiamo il bagaglio, paghiamo la prima notte e usciamo alla scoperta di Kutaisi e del suo cibo. Sono le 17 e un po’ di fame ce l’abbiamo, così assaggiamo il Khachapuri, specie di focaccia col formaggio fuso che con le sue decine di varianti rappresenta uno dei piatti tipici della Georgia. Niente male. La sera continueremo l’esplorazione del cibo locale al ristorante Baraqa mangiando i Khinkali, grossi ravioloni al vapore ripieni di carne e spezie varie. Nel frattempo ce ne andiamo a vedere la grande chiesa ortodossa di Bagrati, distrutta e ricostruita più volte nei secoli, che domina dall’alto la città.

Distruzioni, ricostruzioni e stragi si sono succedute spesso in queste terre invase a più riprese da eserciti persiani, arabi, turchi e russi, in epoche in cui il rispetto dei diritti umani e delle belle arti era molto di là da venire.

La mattina dopo ci svegliamo con la pioggia, così decidiamo di prendere un’escursione alle grotte di Prometeo dove sicuramente non piove, o dove pioviggina sempre un po’ insomma ma vabbè, è una grotta. Queste grotte devono il loro nome alla leggenda della mitologia greca in cui Prometeo, per aver rubato il fuoco agli dei, subisce l’atroce vendetta di Giove che lo fa incatenare ad una rupe ai confini del mondo prima di farlo sprofondare agli inferi. Ecco, la fine del mondo a quei tempi era più o meno qui. Le grotte, pur non avvicinandosi in maestosità a cose già viste (Frasassi è nettamente superiore) sono illuminate bene, anche se in maniera un po’ kitsch a tratti, e la passeggiata di poco più di 1km è piacevole, in compagnia di un gruppo di turisti russi e altri da vari stati sparsi, tra cui Che Hu, il coreano che ha fatto il viaggio con noi da Kutaisi.  Al ritorno l’autista, che parla solo georgiano ma che ha riconosciuto nelle nostre chiacchiere qualche parola a lui familiare (avremo detto “il pomeriggio è troppo azzurro e lungo”?), ci spara un CD di grandi successi di Adriano Celentano, l’italiano di gran lunga più popolare in questa parte di mondo. E così, tra “il tempo se ne va”, “soli” e soprattutto “Susanna” che diventerà il nostro personale Leit Motiv del viaggio, il viaggio di ritorno vola. Memorabile il duetto con Che Hu che canta “Soli” pronunciandolo Solly, credendo che in realtà l’Adriano nazionale usi il ritornello per scusarsi.

Salutato Che Hu ci facciamo uno spuntino, Khachapuri ovviamente, nella sua variante con l’uovo, l’Acharuli. Poi passeggiata alla stazione dei treni per vagliare l’ipotesi di andare a Tbilisi per via ferrata la mattina successiva. Di treni ce ne sono due al giorno, sono economicissimi e lenti che a noi andrebbe anche bene ma gli orari non ci piacciono, o troppo presto o troppo tardi e decidiamo per la Marshrutka, il solito mezzo di trasporto collettivo comune a tutti i paesi dell’ex URSS, nelle varie versioni macchina, jeep, mini van o mini bus. Domattina ci pensiamo. Torniamo in centro città con un cagnetto randagio che ci accompagna e prendiamo una funivia che ci porta sulla collina cittadina dove c’è il luna park con tanto di ruota panoramica. Questa, la collina col luna park collegata da funivia, scopriremo essere una caratteristica comune a tutte le città di questa parte del Caucaso. Evidentemente quando progettavano i centri urbani li facevano così, dovevano per forza nascere accanto ad una collina su cui avrebbero piazzato la ruota panoramica, gli autoscontri e quant’altro. Mentre me lo immagino d’estate, in piena attività, con gran sciamare di folle di ragazzini vocianti e festanti che siedono sul trenino con lo zucchero filato che gli impiastriccia il muso, cammino in questo paesaggio post atomico dove siamo gli unici umani ad addentrarci tra tigri e orsi di cartapesta che sembrano guardarti un po’ attoniti non capendo il motivo della tua presenza in questo posto dimenticato da Dio e da tutti i bambini georgiani.

Poi però ti accorgi che dentro i gabbiotti qualche presenza c’è e, incredibile ma vero, a richiesta funziona tutto. “Cioè, anche la grande ruota panoramica?” “Da da”. E allora facciamoci un giro, compriamo il biglietto e sgranchiamo gli ingranaggi di questo colosso che sta lì inerme da chissà quanto. Prima di partire compaiono anche 4 ragazzi che saranno, boh, ucraini forse, e se lo fanno anche loro un giro. Quanto affollamento, non spingete ragazzi! Finito il giro, riscendiamo al livello del fiume Rioni e ci facciamo un tè nel locale “Sisters” dove, a parte il soffitto e le colonne di cemento armato, c’è un ambiente curato da Russia zarista con tanto di 2 cameriere (le sisters?) in divisa. Giretto al mercato e un’oretta in stanza per ritemprarci prima di cena. Mentre siamo in stanza bussano alla porta: sarà il receptionist per chiederci cortesemente il saldo anticipato della notte che ci apprestiamo a trascorrere nella loro struttura? Sì, è l’omone chiamato Auto(…!!) che quando apro la porta sfrega il pollice con l’indice e dice “money”. OK, got the message, gli allungo i 100Lari (30eur), abbozza un mezzo sorriso (che stimo essere il massimo che riesca a fare) e si allontana con la soddisfazione che dà la missione compiuta.  Concludiamo la giornata mangiando da Palaty, ambiente molto accogliente, con tanto di musica dal vivo prodotta da pianista e violoncellista, entrambe donne, che suonano pezzi classici (no, niente Celentano)  

La mattina dopo ci svegliamo di buon’ora e usciamo alla volta della stazione delle Marshrutke. Auto starà ancora dormendo e ci perdiamo il suo sorrisone di arrivederci, peccato. Ci accomodiamo in un minibus con una 15ina di posti a sedere che vengono tutti occupati e si parte alla volta della capitale. Il viaggio dura 3 ore e ½ e dalla parte sinistra ammiriamo le cime innevate dei monti del Caucaso tra cui Giacomo cerca di scorgere la cima dell’Elbrus che secondo lui è il monte più alto d’Europa.

Eh?

Questa affermazione cozza con le più basilari nozioni geografiche apprese a scuola fin dalle elementari, che vuol dire il monte più alto d’Europa? Il monte più alto d’Europa è il Monte Bianco o il Mont Blanc, in Italia o in Francia, di quello si può discutere, ma che è l’Elbrus, chi glielo dice alla mia maestra Santi che ha inculcato a migliaia di bambini di Albano per 40anni una informazione errata? OK, l’Elbrus è alto 5642m e al Monte bianco gli dà una pista, ma la Georgia non sarà mica Europa, quella è una cosa che dice l’UEFA per far giocare in coppa dei campioni la Dinamo Tbilisi ‘che mantiene ancora un certo fascino ma i continenti non si dividono mica come volevano Platini, Infantino o quella gente lì. Qui stiamo parlando di cose serie, cose scolpite nella pietra, nei sussidiari di secoli, mica possono essere cambiate dai soldi della Dinamo Tbilisi, e che cacchio.

Mi documento: intanto l’Elbrus è in Russia, vicino al confine con la Georgia ma in territorio russo. Russia europea e Russia asiatica sono divise dagli Urali, giusto? Gli Urali, a guardarli vengono giù in verticale e se tracciamo una linea retta…. Eh sì, siamo in Europa di un bel pezzo.

Maestra Santi mi dispiace, ma calcolando l’età che aveva quando io ho fatto le elementari 45 anni fa, immagino lei non lo verrà mai a sapere, meglio così, sarebbe potuto essere fatale, meglio morire di vecchiaia che di certe notizie.

A metà del viaggio passiamo, senza fermarci, da Gori, la città che diede i natali a Iosif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin e forse l’unica città in tutta l’ex URSS a mantenere eretta una sua enorme statua nella piazza principale.

Arriviamo a Tbilisi nella maggiore stazione degli autobus, brulicante di gente, di pullman, di taxi come una main bus station che si rispetti, degna di una capitale di stato. Kutaisi è una lontana città di provincia. Un taxi ci porta nella parte vecchia della città e ci fermiamo a mangiare un Khachapuri mentre sfogliamo guide e internet per decidere dove andare a dormire. C’è un hotel proprio sopra il ristorante che non sembra male e la posizione è perfetta. Chiedo alla reception che prezzo ci fa; non soddisfatto, davanti a lui apro booking.com e prenoto al prezzo che avevo visto e così lui, apparentemente compiacente per avermi fatto il prezzo più basso e dato anche la percentuale al sito alberghiero che piano piano cannibalizza tutti gli altri, ci dà la stanza.  Posati gli zaini si esce subito con la curiosità di vedere cosa offre Tbilisi oltre alle partite della Dinamo, che è più o meno l’unica cosa che mi viene in mente quando penso a questa città. Contrariamente a quanto pensassi, mi rendo subito conto che Tbilisi è una città che di turismo ci vive quanto meno la parte vecchia. Alberghi e ristoranti per tutte le tasche, negozi di souvenir, agenzia di tour organizzati, funivia che ti passa sopra la testa per portarti sulla collina lassù dove c’è la statua della madre di tutti i georgiani e i ruderi di quella che era la fortezza di Narikala che costruita dai Persiani nel 400 e passata poi di padrone di padrone nei vari secoli, ha dovuto subire il colpo fatale da un invasore ancora più feroce di quelli descritti più su, il terremoto che nel 1827 ne ha distrutto gran parte e da cui non si è più risollevata.

Quello che rimane oggi è l’intatto muro di cinta che però la sera è superbamente illuminato e la sua vista dalla parte bassa della città crea un effetto scenico che colpisce. Un bel Trompe l’oeil, non c’è che dire.

Da lassù c’è ovviamente un bel panorama sulla città. Quello che colpisce di più sono le nuove costruzioni, enormi, moderne modernissime, quasi futuristiche. Più tardi, un tassista mi racconta che quei tubi enormi in riva al fiume sono il teatro ed il centro espositivo progettati dallo studio Fuksas, mentre il moderno ponte che quel fiume attraversa, sormontato da una copertura in vetro, acciaio e luci, è il ponte della pace dell’architetto italiano Michele De Lucchi. Gli architetti italiani sono molto apprezzati nella capitale georgiana a quanto pare, chissà se sono stati chiamati dal sindaco di Tbilisi, uno che l’Italia la conosce bene essendo l’ex calciatore del Milan Kaka Kaladze. Al tassista Akaki, chiedo anche cosa ne pensa dell’operato del sindaco. Mi fa una mezza smorfia di disapprovazione e mi dice che in fondo era meglio come “futtbalist”. Ok, è chiaro. Succede spesso. Soprattutto al Milan; ex calciatori ed ex presidenti non dovrebbero entrare in politica.  

Chiudiamo la serata nell’accogliente ristorantino iraniano sotto casa, dove mi mangio un eccellente Dizi, versione persiana dello stufato di manzo.

La mattina dopo per prima cosa vado a vedere la cattedrale: l’enorme struttura che ogni settimana accoglie migliaia di fedeli che si radunano lì per officiare il rito domenicale: lo stadio della Dinamo Tbilisi.  Per andarci prendo la metropolitana che come in tutte le città sovietiche veniva costruita molto in profondità e per arrivare ai treni si prende una scala mobile lunga, ripida e rapida che ti porta poco più su del centro della terra. Ci si accede solo tramite una tessera ricaricabile che ti fanno al volo la prima volta che la prendi. Niente biglietti. Le stazioni ti danno questa sensazione di solidità indistruttibile, le colonne sono enormi e massicce, i treni frequenti e rapidi. I sovietici, quanto meno le metro le sapevano fare bene, non c’è che dire.  Attraverso il mercato che si estende tutto intorno alla stazione centrale e arrivo allo stadio, gli giro intorno per entrare ma è tutto chiuso. Trovo un cancello che si potrebbe aprire, di fronte ad un gabbiotto della sicurezza. Chiedo se posso entrare un secondo a dare un’occhiata ma il no è perentorio e a niente valgono le mie insistenze condite da moine e da millantate amicizie altolocate (Italia, Milano, Kaladze…). Proseguo un po’ per trovare un altro pertugio ma niente da fare. Ripasso davanti al gabbiotto, vedo due persone che entrano, mi ci accodo, uno dei due mi blocca ma l’altro gli dice qualcosa di inintelligibile ma il tono è quello del “dai, fallo entrare un minuto”. Lo ringrazio, mi dice di essere lo Stadion security manager (che culo) e mi ritrovo ad altezza prato con un enorme spazio davanti a me delimitato da spalti contenenti 60000 mila silenti seggiolini blu che mi guardano dall’alto. Ogni volta che mi ritrovo in un posto del genere per un attimo mi tremano le gambe.

Penso alla sensazione che si può provare quando quei 60000 seggiolini sono incarnati da persone che urlano e mi rendo conto che no, aldilà della proibizione imposta dalle scarse qualità tecniche, non avrei mai potuto fare il calciatore, non avrei retto l’emozione.    

Ritorno in centro città (via magma terrestre) e passo al grande multisala a prendere il programma del Tblisi International Film Festival, in corso in questi giorni nella capitale. Mi riprometto di scegliere con calma quale film andrò a vedere la sera e prendo la funicolare che mi porta in cima al monte Mtatsminda che domina Tbilisi dall’alto, da molto più in alto dell’altra collina con la statua di Madre Georgia e dove ovviamente c’è il Luna Park con la sua ruota panoramica. Il complesso è enorme, i visitatori scarsissimi, per lo più gruppetti di indiani e filippini. Parlo con qualcuno e capisco che la maggior parte di loro sono lavoratori stranieri del medio oriente che vengono in queste zone a farsi un week end lungo. In fondo da Doha o da Dubai il volo è breve e il costo della vita, rispetto a quelle città, molto basso.  Mi faccio una passeggiata attraverso il parco dei divertimenti che è strapieno di attrazioni, dal parco acquatico alle montagne russe, il tutto ovviamente fermo per freddo.

C’è perfino un piccolo museo delle cere: all’ingresso, seduti uno accanto all’altro ci sono le cere di Roosevelt, Stalin e Churchill che hanno appena terminato la conferenza di Yalta e ti invitano ad entrare, così vado a dargli un’occhiata. Nell’unica stanza statue a grandezza naturale di personaggi famosi dell’est e dell’ovest, così come li hanno suddivisi quei tre all’ingresso. Così c’è Angelina Jolie e la sua controparte russa, a noi sconosciuta ma che nulla ha da invidiarle in quanto a procacità. Poi c’è JFK, Pavarotti, Mick Jagger ed altri fra cui spicca la figura in tuta mimetica di Che Guevera (scritto proprio così).

Dal monte Mtatsminda il panorama è spettacolare e abbraccia tutta la città, per cui oltre alla Tbilisi futuristica delle archistars italiane, si vede anche la periferia con i suoi tremendi blocchi abitativi in perfetto stile sovietico costruiti quando l’indigenza quella vera era proibita per legge e un pasto ed un tetto dovevano averlo tutti, così mentre negli USA i sobborghi delle città venivano punteggiati da villette con piscina e il centro si riempiva di senzatetto, in URSS nascevano questi palazzoni grigi uno accanto all’altro brulicanti di poveri che però non morivano di fame o di freddo.

L’intento sarà stato sicuramente nobile ma l’effetto estetico è raccapricciante.  Uno dei luoghi che da lassù colpisce l’occhio è la nuova chiesa della santissima trinità, la terza più grande chiesa ortodossa del mondo -Ogni volta che mi dicono così, la prima cosa che penso è “e quali sono la prima e la seconda”? La risposta era vaga (da qualche parte in Russia) così mi documento e sì, in effetti la prima è a Mosca, la seconda a S.Pietroburgo, come da copione- così riscendo in città con la funicolare dal tetto trasparente e prendo un taxi per farmici portare.  La chiesa è bella e nuova e pur non essendo religioso, trovo sempre sollievo quando viaggio nel fermarmi per un po’ in una chiesa (moschea, sinagoga, tempio). E’ sempre un’oasi di pace. Un riparo dal freddo o dal caldo, dallo smog, dal rumore, dal traffico cittadino. E le chiese ortodosse sono belle, profumate di incenso, tanta arte sacra alle pareti, sempre canti in sottofondo. Hanno però, rispetto alle chiese cristiane, un gran difetto: non hanno panche, devi stare in piedi; e questo riduce sempre il tempo della visita a quello della mera osservazione, niente relax, niente meditazione, niente comfort. In fondo ti dicono “non credi? Vai a rilassarti a casa tua, vai!” Ok, obbedisco, esco e mi prendo un tè nella caffetteria lì vicino aspettando che tramonti, per poi uscire e vedere la cattedrale di sera, con le luci che la illuminano con maestria. Ed è tutto un altro effetto.

Ho deciso, stasera vado a vedermi un film chiamato Little Joe in una delle 4 sale del multisala che ospita l’international film festival. La trama mi ispira. Arrivo al cinema e trovo un affollamento che blocca l’ingresso del cinema e il marciapiede di fronte. Ci sono anche due macchine della polizia, ma ormai ho capito che in Georgia c’è sempre la polizia ogni volta che si radunano più di 20 persone alla volta. Mi faccio spazio, entro, coda alla cassa, capisco che si discute di film di giorni dopo, mi intrometto timidamente per comprare un biglietto per la sera ma la cassiera mi guarda come per dirmi “da dove arrivi bello, è sold-out da tempo, in tutte le sale”. E io che credevo di far parte per una sera della ristretta cerchia dell’élite internazionalista di Tbilisi… ma evidentemente tanto ristretta non è. Un po’ deluso, raggiungo Giacomo e mi consolo con la zuppa iraniana del giorno.

La mattina successiva partiamo per un’escursione sulle montagne, insieme ad una quindicina di persone con le provenienze più disparate. Dopo una sosta per vedere un vecchio monastero che domina la vallata sottostante, ci fermiamo a Gaudari la Cortina d’Ampezzo georgiana, stazione sciistica con tanti alberghi ed impianti di risalita, nati nei primi anni ’80 quando l’Unione Sovietica prossima al collasso ed alla disperata ricerca di valuta estera pregiata, individuò nel Caucaso la regione che avrebbe potuto ospitare i ricchi sciatori europei e diede l’incarico di individuare il territorio adatto a due italiani esperti di turismo. Il progetto non è certo servito per lo scopo che si erano prefissati al Cremlino ma la località ha cominciato pian piano a brillare di luce propria ed ora ospita soprattutto sciatori russi e ucraini nei suoi infiniti alberghi più o meno belli disseminati sulla costa di quella montagna.

L’ultima tappa dell’escursione è Kazbegi, così chiamata da tutti anche se il suo vero nome è Stepansminda, una cittadina a 1700m di altezza e a 20km dal confine russo circondata da cime altissime dove dà l’idea di fare tanto ma tanto freddo. Noi arriviamo sulla cima dirimpetto dominata da una chiesa del 14imo secolo con una vista mozzafiato, ma il sole è calato e ci sono già 6 gradi sotto lo zero, non possiamo godercela tanto a lungo.

Durante la salita sento, tra i compagni di viaggio, una coppia che parla in arabo; chiedo al ragazzo da dove vengono e lui mi dice di essere circasso.

?

Ora, io mi vanto di essere un esperto in geografia ma confesso che questa risposta mi ha lasciato un po’.. interdetto.  Balbetto qualcosa cercando di scoprirne di più su questa Circassialand, grazie ai potenti mezzi tecnologici a disposizione apro google maps e gli chiedo di indicarmene esattamente l’ubicazione ma le sue indicazioni condite di potente orgoglio nazionalistico mi nascondono un po’ il fatto che la Circassia non esiste. I circassi sì, erano un popolo che abitava una grande regione a nord della Georgia, più o meno da Sochi sul Mar Nero fino alla Cecenia, in quelle zone che abbiamo sentito nominare negli anni nei telegiornali e che sono sinonimo di casini e guerre infinite: pensiamo a Inguscezia, Cecenia, Abkhazia, Daghestan, Ossezia del sud, Nagorno Karabakh. Nel 1864 i russi decisero di farla finita con questo popolo che evidentemente contrastava con le loro mire imperiali e si impegnarono in un genocidio che ha lasciato pochi superstiti e poche testimonianze storiche visto che se ne sa poco o niente. La diaspora circassa ha sparso i superstiti in tante regioni dell’impero ottomano, Turchia e Siria in primis ma il sentimento nazionale deve essere sopravvissuto a lungo se ancora oggi, il pronipote di uno di quei profughi, nato e cresciuto in Giordania, mi dice di essere circasso.      

Torniamo alla base, prenotiamo la macchina che ci porterà in Armenia il giorno dopo e passiamo l’ultima notte a Tbilisi.

Per arrivare alla frontiera ci sono circa 70km, di case brutte di periferia prima e di landa desolata poi. La frontiera è una di quelle tranquille, con poca tensione e pochi apparati di sicurezza, come quella che c’è tra due paesi amici. L’agente addetto al controllo passaporti cerca il timbro di entrata e dopo un po’ interrompo la sua ricerca dicendogli che sono entrato con la carta d’identità; non so se mi abbia effettivamente capito ma mi dice “ah ok” e mi stampa l’uscita. Arrivederci Georgia.  I soliti pochi km in terra di nessuno e anche la frontiera armena viene passata senza nessun assillo e difficoltà, solo un’altra macchia di inchiostro sul passaporto.  Ora i cartelli stradali sono diversi, l’alfabeto armeno è diverso da quello georgiano, qualcuno dotato di grande spirito d’osservazione ci fa caso che le lettere sono diverse, la stragrande maggioranza invece relega entrambi nella categoria alfabeti ghirigori dove le differenze non si notano nemmeno. A me piace decifrare ma i giorni sono pochi e più di qualche lettera non la imparerò.

Il viaggio lo facciamo nella vecchia Mercedes di Gosha con cui non abbiamo una lingua comune di collegamento ma incredibilmente riusciamo in qualche modo a comunicare e a dirci un sacco di cose, per esempio che lui ha lavorato in Germania per 20 mesi per una ditta turca che poi non lo pagava più, ha avuto uno scontro fisico col titolare, ha comprato la Mercedes su cui siamo seduti ed è tornato in Georgia con lei passando per Polonia, Ucraina e ottenendo un visto di transito solo per attraversare un pezzo di Russia. Incredibile quante cose si riescono a sapere pur non parlando la stessa lingua, no? Con lui arriviamo fino al Lago Sevan, grande quasi 4 volte il nostro Garda e a 1900m di altezza. Visitiamo il monastero di Sevanavank su un promontorio di una penisola che si affaccia sul lago. Era un’isola prima che Stalin facesse prosciugare il lago abbassandone il livello di 20m. Ora è certamente più accessibile ed è una delle escursioni favorite da Yerevan; ci sono alberghi, ristoranti ed un sacco di venditori ambulanti che sicuramente fanno migliori affari d’estate. Ora c’è un gran vento freddo e il tempo della nostra visita è limitato. Torniamo da Gosha per scoprire che ci ha venduto ad un collega che deve andare a Erevan e se non ci dispiace lui tornerebbe indietro che ha pneumatici lisci ed ha paura che inizi a nevicare a quella considerevole altitudine. Il tutto sempre a gesti e in una parola in una lingua e una in un’altra. Dà al collega il pro-rata che gli spetta e ci saluta e noi, traslate le nostre poche cose da una Mercedes all’altra (anche questa con più di 600mila km sul groppone) ci avviamo verso la capitale Armena e continuiamo a viaggiare accanto ad un unico lunghissimo tubo che senza interruzioni è presente al lato della strada a circa 1 metro di altezza da quando siamo entrati in Armenia. Ogni volta che c’è un ingresso laterale, che sia una fattoria, dei campi o una proprietà privata, il tubo sale, fa una specie di porta da calcio alta 4 o 5 metri, riscende a formare l’altro palo e prosegue con noi dovunque arrivi la strada. Scopriamo che sono i tubi del gas che evidentemente interrarli sarebbe costato troppo. Mi chiedo se siano stati i russi o gli armeni post soviet ad avere questa bella ed estetica pensata. I tubi ci scortano a mo’ di guard-rail fino nella capitale, dove arriviamo a metà pomeriggio in pieno traffico da ora di punta.  Alla guest-house dove avevamo pensato di andare non ci risponde nessuno così, senza fretta, andiamo a farci una sim-card armena e ci prendiamo un caffè lì vicino esplorando le possibilità di alloggio nei dintorni. Il secondo tentativo è quello giusto e andiamo al 14th floor hotel, che ha la reception al piano zero e le camere al 14. L’ascensore non ha i tasti per le fermate intermedie. Me lo sono poi chiesto che ci sarà in mezzo rispondendomi che sicuramente c’è un altro ascensore da un altro ingresso che ferma in tutti i piani. Almeno fino al 13.

Facciamo una passeggiata in centro e andiamo a mangiare da Anteb. Provo il Gouvaj, una casseruola con dentro sugo di pomodoro, peperoni e carne di manzo e mi lecco i baffi o meglio, me li bagno col vino armeno di accompagnamento, che non ha nulla da invidiare a quello georgiano, e nemmeno a quello italiano. Se i viaggi precedenti erano tipici da salutisti, con il cibo necessario e niente di più, e niente alcool se non quella birretta occasionale a settimana, questo è molto diverso, per via del buon cibo certo, ma soprattutto perché la bottiglia di rosso a cena non è mai mancata. Questa è terra di vino e ne vanno orgogliosi. Dicono di essere stati i primi a farlo, vantano un ritrovamento di giare adibite alla raccolta del mosto risalenti a 4000 anni prima di Cristo e la lunga esperienza si fa apprezzare per cui ne approfittiamo.  Digeriamo l’abbondante mangiata e bevuta con una passeggiata e due partite a bowling dove Giacomino è stracciato in due partite senza possibilità di bella.

Il giorno dopo, fatta colazione al 14mo piano e un po’ delusi perché la scarsa visibilità ci impedisce di vedere il monte Ararat, prendiamo una Marshrutka che qui sono inglobate nella rete ufficiale del trasporto pubblico capitolino, fino alla fermata più vicina al Museo del genocidio armeno, ferita ancora aperta e purulenta in tutti gli armeni del mondo. Il museo è toccante o per meglio dire scioccante. Racconta per mezzo di una cinquantina di pannelli, foto, articoli di giornale e altri documenti, la pianificazione e l’esecuzione di quello che fu il primo genocidio moderno, perpetrato dai nuovi governanti della Turchia, lo stato nato dalle ceneri del collassato Impero Ottomano, ovvero dalla giunta militare divenuta famosa col nome di Giovani Turchi con al comando Kemal Pasha detto Ataturk. Gli Armeni, visti come una minaccia, come non omogenei al progetto di Turchizzazione della penisola anatolica, come uno stato nello stato (dove l’abbiamo già sentite queste parole?) e come alleati dei correligionari russi con cui la Turchia era in guerra, furono deportati in massa verso i deserti della Siria ma in realtà ce ne arrivarono ben pochi perché la maggior parte caddero di stenti o uccisi durante il viaggio. Si calcola che ne morirono 1 milione e 400mila nel solo biennio 1915-16 e le foto dei gruppi sterminati di orfani affamati e scalzi colpiscono l’anima.  Sopra il museo, c’è un giardino con alberi piantati da capi di stato il cui paese riconosce storicamente il genocidio e ha per questo contrasti più o meno aperti con la Turchia che invece lo nega con forza. C’è anche la targa accanto all’albero piantato dal nostro presidente della repubblica in carica, Mr Sergio Mattarella.

Scopro che insieme agli armeni furono sterminati anche i Greci del Ponto, una regione a nord est dell’Anatolia abitata da comunità greche da millenni, e nello stesso periodo si parla del genocidio degli Assiri. Io gli Assiri me li ricordo come uomini dalla barba lunga che colloco più o meno tra gli Ittiti e i Sumeri, tra le prime pagine del libro di storia di prima media e non pensavo esistessero ancora e invece il gruppo etnico è sopravvissuto a lungo, almeno finché Ataturk e i suoi hanno tentato di correggere questo anacronismo storico, insomma. In realtà di sopravvissuti ce ne sono ancora, sparsi ai quattro angoli del pianeta a sognare, come i circassi, la terra degli avi.  

Vengo anche a conoscenza della “operazione Nemesis”, una missione segreta con cui, tra il 1920 e il 1922 la Federazione Rivoluzionaria Armena colpì quelli che considerava i maggiori responsabili del genocidio e uno dopo l’altro li rintracciò e li assassinò nei luoghi dove si erano rifugiati, da Berlino a Tbilisi e addirittura a Roma, antesignani di quel commando del Mossad che colpì i responsabili della strage di Monaco’72. 

Un po’ intontiti da tanto orrore, scendiamo dirigendoci verso quella costruzione ovale che non potevamo non notare giusto ai piedi della collinetta del museo, lo stadio dell’ Ararat Armenia, solo per scoprire che è tutto abbandonato da tempo perché c’è un nuovo stadio ma all’esterno c’è una scultura in bronzo che attrae la nostra attenzione; si tratta del monumento eretto alla squadra, l’Ararat appunto che nel ’73 vinse niente popo’ di meno che il campionato sovietico di calcio, battendo in finale, in rimonta, la Dinamo Kiev. La scultura raffigura tutti i giocatori in tenuta da gioco, come le foto di squadra che si fanno prima di ogni partita importante. Alle loro spalle allenatore e dirigenti, e davanti a loro il trofeo vinto quel lontano giorno del ’73 che deve esser restato a lungo nella memoria degli abitanti di questa lontana provincia dell’impero i cui rappresentanti sportivi volarono a Mosca e tornarono vincitori osannati da una nazione intera.           

Andiamo a farci un giro nel grande mercato coperto, strapieno di bancarelle che vendono più che altro spezie e frutta secca. Ogni venditore ci chiama per farci assaggiare albicocche, prugne, ciliegie noci nocciole e non so che altro e dopo 10 minuti e 20 metri fatti sento già che sto per scoppiare e rifiuto cortesemente tutte le successive offerte di assaggini vari. Ci sono anche le bancarelle strapiene di un dolce tipico di queste parti che in Georgia si chiama Churchkela e in Armenia Sharots consistente in palline di noci sbucciate infilzate e tenute insieme da uno spago e immerse in succo d’uva addensato ed essiccato che gli dà un po’ l’aspetto di salsiccia. Le varianti sono tante, dalle noci alle nocciole, dal mosto d’uva a succhi vari, di mora, ribes o altra frutta e cambiando di sapore cambiano anche di colore, dando alle bancarelle in cui le vendono un aspetto variopinto e divertente.

Il mercato all’aperto di Erevan invece è il Vernissage, molto centrale, nato come mercato delle pulci e degli artisti e via via imborghesitosi con l’incremento delle visite dei turisti. Due corsie e 300 metri di bancarelle che vendono artigianato locale e souvenir vari senza differenziarsi poi molto da bancarella a bancarella.       

Una delle cose da non perdere a Erevan è il complesso della Cascata un progetto mastodontico la cui prima fase ha avuto luogo negli anni ’70 ma che poi ha preso nuovo impulso grazie alle donazioni del magnate americano di origine armene Mr Cafesjjan nel primo decennio del 2000.  Si tratta di una scalinata di calcare bianco di 572 scalini e 300 metri di altezza con fontane ed opere d’arte di origini varie. Nel viale alla base della scalinata ci sono anche 3 statue di Botero in tutta la loro rigida adiposità. La cascata si può anche risalire da dentro tramite 5 livelli di scale mobili. L’interno è esso stesso un’esposizione permanente di arte varia e sede di un museo diffuso, distribuito su 5 sale corrispondenti ai 5 livelli della cascata, il Cafesjian Centre for the Arts, o in armeno Գաֆէսճեան արվեստի կենտրոն.  In cima a tutto c’è un enorme balcone che domina tutta la città con al centro un monumento alto 65m eretto nel 1970 per celebrare il 50mo anniversario dell’ingresso dell’Armenia nell’unione sovietica. La cosa assurda è che a questo balcone non ci si arriva semplicemente salendo gli scalini della cascata ‘che ad un certo punto finiscono e devi avventurarti su una stradina deserta e un sottoponte per arrivarci. In mezzo, tra la fine degli scalini e il bel balcone, un cantiere di pilastri di cemento con ferro arrugginito che fuoriesce, segno di abbandono a metà lavori. Sul balcone di sopra, all’interno di un cubo di latta e vetro, un anziano sorvegliante con stufetta e parole crociate per passare la giornata; anche lui è uno sfrenato fan di Celentano e ci racconta… ok ci fa capire.. che ad un certo punto della costruzione, quando il magnate armenamericano ha capito che dei milioni di dollari che versava, una gran parte finivano nelle tasche dei burocrati locali, ha interrotto l’erogazione ed il progetto langue così da 10 anni. Certo dal basso non si vede e tutti i dépliant turistici evitano accuratamente le foto dall’alto. Prima o poi si farà. Con calma. 

Da lassù, attraversiamo la strada e siamo nel Parco della Vittoria e invece dei dadi di Monopoli troviamo, come no, IL LUNA PARK!!!! Con tanto di ruota panoramica, evviva! Qui però è tutto strachiuso, nessuno nascosto all’interno con la stufetta, pronto a far partire il marchingegno a richiesta. Alla fine del parco, l’enorme statua di Madre Armenia con le quattro sale del museo militare che riporta foto, reperti e racconti degli eroi armeni della seconda guerra mondiale e soprattutto del conflitto molto più recente contro l’Azerbaijan per l’indipendenza del Nagorno-Karabakh, regione assegnata da Stalin all’Azerbaijan anche se popolata in grande maggioranza da Armeni e per questo ribellatasi dopo il crollo dell’unione.

Le relazioni tra questi due vicini sono tutt’ora incandescenti chissà se in futuro si raffredderanno o prenderanno fuoco un’altra volta aggiungendo un altro conflitto nella lista infinita di guerre scontri e stermini che da sempre affliggono queste terre martoriate.       

Assaporiamo le ultime ore di Armenia, tra giri in centro e viste a musei. Prendo anche la metro di Erevan non molto estesa ma anche questa bella da vedere e molto funzionale. Per entrarci devi comprare all’ingresso un gettone arancione, un po’ come quelli delle giostre anni ’70 e costa più o meno il prezzo che pagavamo per un giro in autoscontro, 3 o 400 lire.

Mi ero ripromesso di non andarmene prima di essermi fatto un’altra scorpacciata di Gouvaj, così a cena ritorniamo da Anteb e ci accoglie il giovane cameriere simpatico dell’altra volta di cui ricordo anche il nome, Nejdè. Ci chiacchieriamo un po’ e scopriamo che in realtà è siriano, di Kessab nella zona nordoccidentale della Siria, vicino al confine con la Turchia, una zona popolata quasi esclusivamente da Armeni, per cui tutti come lui hanno il cognome che termina in YAN o IAN e parlano esclusivamente armeno tra loro. Dice che la guerra ha soltanto sfiorato quella parte di Siria, la sua famiglia è stata sfollata 6 mesi e poi è tornata a casa. Mi aspettavo di sentire il racconto di chissà quali peripezie per arrivare a Yerevan e invece ci è venuto tranquillamente in aereo per studiare all’università. E la sera fa il cameriere per guadagnarsi da vivere. Storie di ordinaria normalità insomma, è bello sentirle ogni tanto, anche qui.

Ci riposiamo un paio d’ore per smaltire cibo e vino ed un tassista ci porta in aeroporto. E’ scontroso, non dice neanche una parola e non solo neanche un sorriso ma è uno di quelli che danno l’idea di non farlo da tanto tempo che i muscoli facciali appositi gli si sono ormai atrofizzati. Riflette un po’ la tendenza generale di questa parte del mondo dove le donne sono mediamente più carine e più gentili dei maschi meno belli e più scontrosi. Giovani di tutto il mondo, armatevi e partite, questo è il terreno di caccia ideale