SRI LANKA ’23

La destinazione è nata così: io ed il mio omonimo amico (uno dei 4 dell’Argentina) abbiamo due settimane di ferie a marzo e vogliamo andarcene un po’ lontano, un po’ ad est, vogliamo l’Asia.

Dove andiamo? Lui propone India del sud. Io propongo Almaty (KZ) e da lì via terra fino a Samarcanda, la mia solita fissa dell’Asia centrale itinerante. Bello. Poi vedo le temperature che a marzo sono ancora un po’ da battere i denti. Rimandiamo, guardiamo un po’ più a sud. L’India meridionale non mi ha mai attratto più di tanto ma…. Ancora un po’ più a sud… c’è lo Sri Lanka.

Un’isola a forma di goccia, poco più piccola dell’Irlanda, un 400km di lunghezza per 200 di larghezza dotata di strade e ferrovie.  

A Milano c’è una grande comunità dello Sri Lanka e ne vedo partire tanti tutti i giorni, sono sempre sorridenti, il paese è stato conquistato nel tempo da portoghesi, olandesi, inglesi, la guerra civile recente con le Tigri Tamil, insomma c’è un sacco di storia, mare colline montagne e sorrisi, Mauro si convince. Deciso. Si va lì.

Ci incontriamo a Doha in transito e proseguiamo insieme o quantomeno sullo stesso aereo per Colombo dove arriviamo alle 8 di mattina senza aver dormito un cavolo.

Controlli velocissimi con l’ufficiale dell’immigrazione che ci sorride (lo sapevo che era un paese di sorrisi, quando mai trovi un ufficiale dell’immigrazione che ti sorride?)

Approccio lento: due chiacchiere all’ufficio del turismo per chiedere come si va in città col trasporto pubblico e farmi dare una bella mappa che, usata e strausata e strastrappata reggerà fino alla fine; cambia valute, tessera SIM locale e colazione all’unico bar di zona arrivi per organizzare il vero ingresso nel paese.

Si esce: “no thanks” a tutti i “taxi, Sir?” e ci si avvia a piedi verso l’uscita dal perimetro inaccessibile dell’aeroporto. Lì prendiamo il primo TukTuk verso la vicinissima fermata dell’autobus e saliamo sul primo di tanti autobus che prenderemo che, tramite expressway/autostrada ci porta a Colombo Fort in meno di 1h.  

Nel frattempo prenotiamo l’albergo. Non è quello fittizio che avevamo scritto sulla Arrival Card, anche se è nei pressi:  è il C1 che non ci dà la camera perché è troppo presto ma ci fa lasciare i bagagli e prendere un caffè prima di andarcene un po’ in giro a familiarizzare con la città. Siamo in debito di sonno ma l’adrenalina della novità ci tiene belli svegli.

E’ domenica ed il Pettah Market lì vicino un po’ è chiuso un po’ sonnecchia.  Una bella torre altissima fa capolino da ogni angolo, andiamo a vederla.

La Lotus Tower

E’ la Lotus tower, di recente costruzione (cinese), ed è alta 350m. Entra in classifica top ten (o forse 11ma?) delle torri più alte in Asia. E’ bella, ha questa struttura a fiore di loto che, scopriremo poi di sera, cambia colore continuamente. Si può andar su? Certo, ecco le tariffe: i locali pagano 500 rupie (1,50 eur) e gli stranieri 15 volte tanto, 7500r equivalente a 23eur. Ci sono, ci vado, ma mi lascia sempre un po’ l’amaro in bocca un paese straniero che ti tratta come una banconota che cammina piuttosto che come un gradito ospite. Ed a leggere le recensioni su google/tripadvisor non sono certo il solo a pensarla così. Purtroppo non è l’unico sito in Sri Lanka dove la differenza da pagare per gli stranieri rispetto ai locali è enorme, anche 40 o 50 volte.

L’ascensore è rapidissimo, gli addetti in bella livrea ed il panorama è a 360 gradi sulla città e, nei giorni limpidissimi, non il mio, la vista spazia ben oltre.

Tra passeggiate e giri in Tuk Tuk per abituare i sensi alla diversità dello SriLanka, si fa una certa, mangiamo ed a letto presto per recuperare. 12 ore di sonno filato e ci svegliamo freschi come rose.

Gli autisti di Tuk Tuk (di gran lunga il mezzo più diffuso del paese), almeno quelli che masticano un po’ di inglese e girano nelle zone dove gravitano i turisti stranieri, sono tutti in possesso di un A4 plastificato con le foto di una decina di siti turisticamente interessanti di Colombo e ti propongono di accompagnarti a visitarli tutti, con relativa attesa fuori, per l’equivalente di 5 dollari / 1h. Prezzo che ovviamente aumenterà in proporzione perché con 1h ci passi solo davanti. La proposta ce la fa anche Babu ma ci facciamo portare solo al museo nazionale. Lui in ogni caso ci lascia il numero di telefono in caso cambiassimo idea.

Alla fine non è poi una brutta idea il “hop-on, hop-off” in tuk tuk, ci si sente più integrati, più immersi nella vita cittadina piuttosto che quando ci scivoli sopra dall’alto di un bus a due piani scoperto come avviene nelle moderne città nostrane, no?

La “volante” di Trinco

Il Tuk tuk è praticamente l’utilitaria dello Sri lanka. Chi è che non ha un Tuk Tuk? E’ principalmente di fabbricazione indiana, marca Bajaj e sottomarche varie e nelle sue varianti viene usato come mezzo di locomozione, come trasporto merce, soprattutto come taxi ma anche come volante (…) dalla Polizia e, adeguatamente allestito, anche come camioncino vendita di prodotti alimentari, soprattutto dolciumi, itinerante, tipo i nostri camion che vendono panini con la salamella fuori dagli stadi. Questi ultimi, per farsi riconoscere ed attirare clienti hanno tutti la stessa musichetta di sottofondo, Per Elisa di Beethoven riprodotta con la pianola elettronica, musichetta che perciò senti costantemente quando sei in giro per le città e ti rimane in testa tutto il giorno. 

Visitiamo il municipio in stile Casa Bianca, un paio di templi buddisti,

la casa di Babu che ci ha chiesto “if we don’t mind” di passare da casa sua a portare il riso che ha comprato perché ormai sono le due e i 2 figli, il fratello down e la vecchia madre lo aspettano per mangiare.  La moglie è morta da qualche anno e con il suo lavoro di tuktuxista ci campa tutta la famiglia.

Gli offriamo il pranzo in un posto un po’ fuori rotta ma dove si trovano anche delle forchette per questi occidentali che, si sa, non usano le mani.

Ci facciamo lasciare al Phetta Market, molto più vivo del giorno prima e ci congediamo da Babu con abbracci, sorrisi, ringraziamenti e lauta mancia.

Giro per bancarelle, compriamo cappelli e maglietta, domani si va al mare!!

Il sistema ferroviario dello Sri Lanka è abbastanza sviluppato, come in tutti i paesi che vantano (o lamentano) una lunga dominazione inglese. Il treno non va proprio dappertutto ma copre buona parte del paese. Noi lo prendiamo per andare lungo la costa sud-occidentale fino a Galle.

La carrozza è di terza classe ma chi l’ha detto che in terza classe, che in terza classe si viaggia male? I treni con la prima classe in dotazione avevano orari che non ci si confacevano e alla seconda in realtà non ci abbiamo neanche pensato. E il botteghino della stazione di Colombo Fort non ce l’ha neanche proposto quando gli abbiamo dato quelle 260 rupie (0,80eur) per le tre ore di viaggio. Non c’è l’aria condizionata, ok, ma ci sono dei ventilatorini sul soffitto. Non c’è posto per tutti, ok, ma c’è chi scende e chi sale ad ogni stazione per cui i posti sono per così dire… fluidi. E poi, a chi rimane tanto tempo in piedi viene offerto il posto dopo un po’; mezz’ora per uno ed il tempo passa.

La città vecchia di Galle è in una penisola fortificata dalle mura del forte tutte intorno. Una Dubrovnik dei poveri. Sostituiamo Romani, Veneziani, Ottomani e Serbi con Indiani, Portoghesi, Olandesi ed Inglesi ed il contesto è lo stesso. Solo che Dubrovnik è in Europa, dove il recupero e la valorizzazione del passato hanno un altro peso;

ed altre risorse;

unitamente ad un’altra visione dell’architettura. Galle sì, ha ancora le mura ed i cannoni ma per rinverdire i fasti passati devi fare un bello sforzo di immaginazione. La camminiamo in lungo e largo tutto il pomeriggio, fermandoci anche a fare un bagno fuori le mura, tenendoci vicino a riva perché la corrente è fortissima. Chiacchieriamo un po’ con una simpatica coppia di Lituani che sono nel nostro stesso alloggio, facendoci raccontare un po’ di cose visto che sono nel paese da un mese e la sera mangiamo rice and curry (piatto base dello Sri Lanka) parlando con una coppia di russi pazzerelli, seduti al tavolo accanto al nostro. 

Di russi ce ne sono tantissimi da queste parti. Forse noi credevamo che impedendogli i voli diretti per l’Europa, se ne sarebbero stati lì a mangiarsi le mani ed a inveire contro il loro governo ed invece questi se ne vanno in giro per il resto del mondo a spendere i loro rubli che evidentemente hanno ancora in abbondanza. E forse sono gli albergatori di Rimini e di Forte dei marmi a mangiarsi le mani e a protestare contro il loro, di governo, che poi è anche il nostro.

La mattina successiva, dopo aver fatto una ricca colazione, inclusa nei 14eur a testa che abbiamo pagato per la stanza, si riparte. C’è uno sciopero del trasporto pubblico per cui trattiamo un po’ con l’onnipresente autista di Tuk Tuk e i 33km per Mirissa ce li facciamo con lui, con tanto di sosta ad un santuario delle tartarughe giganti, dove gli operatori si prendono cura di quelle non più in grado di “navigare” rimettendole in sesto prima di restituirle al mare.

 Arriviamo a Mirissa, località di mare. Lo senti, anche se il mare non si vede. Lo annusi, lo vedi dai vestiti della gente, dai ristoranti di pesce sulla strada, dalla miriade di turisti/bagnanti che vanno in spiaggia o ne ritornano. Ci facciamo portare da George, prenotato a colazione.  Siamo a 500m da una bella spiaggia, lunghissima, bella e pulita. Io cerco subito riparo all’ombra delle palme che lascio ogni tanto solo per andare a farmi il bagno. L’acqua è pulita ma le onde che scuotono sempre la sabbia sul fondo impediscono quella trasparenza che vedi in Grecia o in Sardegna. Un’acqua “greca” in effetti non l’ho mai trovata nelle varie spiagge che ho visto. 

Mirissa

La sera ci concediamo una cena come si deve. Scegliamo un pescione da 2kg tra quelli esposti, ce lo facciamo cuocere e ce lo spappoliamo con gusto. Tra pesce, varie birre Lion Lager e non so che altro, gli lasciamo l’equivalente di 50 eur, di gran lunga la cena più cara che faremo, ma ne valeva la pena. Chiacchieriamo anche un po’ con Zharat, il cameriere 63enne che parla un buon inglese, a differenza della maggior parte delle persone (non si pensi che la lunga colonizzazione abbia sortito tanti effetti sotto il punto di vista della lingua) e ha viaggiato molto su navi mercantili. Ci dice che ha abitato a lungo a Bombay non potendo tornare in Sri Lanka per non venire arrestato. E’ rimasto fuori dal paese per 16 anni, con la madre che per vederlo doveva andare a Bombay.  Se gliel’ho chiesto il perché? E certo che gliel’ho chiesto con la mia mancanza di discrezione; era una storia di assegni a vuoto mi ha detto.

La mattina dopo, alle 6.30 mi aspetta un tuk tuk per portarmi ad un coloratissimo porticciolo da dove partono i barconi che portano i turisti a vedere le balene blu.

Porticciolo di Mirissa

Un po’ un safari acquatico, dove i vari barconi grandi e piccoli, credo la cosa vari in rapporto al censo e all’esclusività che ti vuoi pagare, si dirigono verso il posto dove si pensa ci sia più possibilità di vedere le balene.

Di balene ne abbiamo viste, così come tanti delfini: piccoline eh, non che ci si debba aspettare l’enorme balena di pinocchio e per carità, è sempre uno spettacolo affascinante ma a me quello che colpisce di più in questi safari terrestri o marittimi è quell’altra specie animale, quella che sta dietro agli obiettivi, o ai telefonini che dir si voglia.  Più che giù nell’acqua mi veniva più da guardare i miei compagni di viaggio sul ponte della nave. Eravamo venuti a vedere le balene ma nessuno guardava le balene, tutti guardavano lo schermo del proprio telefono e gioivano o si lamentavano a seconda della ripresa venuta bene o meno.

Strano animale st’umano !!!

Dopo una giornata di relax in spiaggia la mattina dopo si parte alla volta dell’altopiano centrale. Autobus al volo fino a Matara, cittadina che passandoci dall’autobus mi è sembrata brulicante di vita propria, al contrario di Mirissa che vive solo di turismo, e in tempi recenti soprattutto di turismo russo. Arriviamo alla stazione degli autobus, ci indirizzano verso l’autobus per Ella e gli unici due passeggeri già presenti a bordo sono italiani, forse i primi che incontriamo dal nostro arrivo. E non solo, entrando più nel dettaglio scopriamo che lei, Irene, è cresciuta ad Albano Laziale. Incredibile!  Ci facciamo le 6 ore di viaggio tra mille chiacchiere. Loro sono nomadi digitali, nuova specie umana figlia dell’evoluzione internettiana dei nostri tempi. O per meglio dire, dei loro, dei nativi digitali, di quelli che non sanno che per cercare un posto in città ti fermavi a chiedere ad un passante e di quando se qualcuno non veniva ad un appuntamento ti dannavi pensando a dove cacchio poteva essere senza poterlo sapere. Loro lavorano da casa e possono scegliere dove vivere e anche se vivere un po’ qua ed un po’ là, con tutti i pro e i contro che questa libertà/instabilità può dare. Hanno anche un sito internet dedicato alla loro “specie”, www.freakingnomads.com con tanti consigli pratici sulla gestione di queste vite “mobili”.

Arriviamo ad Ella nel pomeriggio. Il paesino in sé è bruttino, un sacco di ristoranti bar e pub ai lati della strada principale ed una miriade di case vacanza sparse alla bell’e meglio nelle colline circostanti, con verande che si affacciano sulla foresta e sulle montagne. Il piano regolatore e la tutela paesaggistica sono parole che appartengono al vocabolario di quei ricconi là che hanno già la panza piena.  La zona in cui è immersa Ella è molto bella, verdissima, con colline che si stagliano verso l’alto all’improvviso, punti di belvedere, cascate, piantagioni di tè e Budda enormi sui cocuzzoli.

Cerco su google il posto in collina dove abbiamo prenotato, telefono e chi mi risponde, un po’ perplesso mi dice (mi fa capire) che mi manda un tuk tuk a raccattarci. Dopo mezz’ora arriva, ci facciamo un 4km in salita per poi scoprire che siamo andati a Bella Ella ma che in realtà avevamo prenotato Casa Bella e allora giù per la collina e su per un’altra fino a Casa Bella che in fondo è same same but different place. Il posto è chiuso ma tramite qualche telefonata arriva chi deve arrivare e ci apre casa. Ci lascia anche lì intorno un ragazzo per assistenza completamente inutile visto che non parla una parola d’inglese; l’unica cosa che riuscirà a dirmi in 2 giorni sarà “you smoke weed?”(fumi l’erba?). Apperò, come hanno imparato a soddisfare le richieste ludiche dei giovani occidentali. Io in viaggio sono in modalità attiva e curiosa per cui si limiterà a portarci la colazione e niente business extra. 

9-arch bridge

Dalla nostra veranda si vede il 9 arch bridge che a quanto pare è una delle “tourist attractions” di Ella, con foto in mostra da tutte le parti, così scendiamo a vederlo ed a camminarci sopra, a dir la verità senza essere sopraffatti da cotanta spettacolarità e riflettendo su come a volte il marketing (anche primitivo come può essere un marketing ad Ella) dia fama e riconoscimenti a posti o a persone che ne meriterebbero anche meno.

Il giorno dopo, fatto un piccolo trekking al “little Adam’s peak”, si affitta la moto per girare un po’ i dintorni in autonomia. Alla cascata vicino alla quale eravamo passati in autobus venendo qui, un po’ affollata soprattutto di turisti locali, mi spoglio e mi immergo ma mentre già assaporo la doccia avvicinandomi alla cascata vera e propria sento un fischio tipo da vigile.  Mi giro e vedo un poliziotto che mi fa cenno di tornare sui miei passi, che quello che volevo fare io no, non si può. E niente, anche lo SriLanka ogni tanto ha qualche regola dettata dall’overtourism.  Proseguiamo in moto e andiamo a vedere una fabbrica di tè, ma oggi è sabato e non si lavora (no production day).  Vediamo un tempio con un Budda gigante lassù sulla montagna e puntiamo lo scooter verso di lui. E’ ancora in costruzione ma è quasi finito, c’è una bella atmosfera ed una vista stupenda.

Mi faccio raccontare un po’ di cose sul tempio da una specie di sacerdotessa che accoglie i visitatori. Alla fine mi dice che è stato piacevole parlare con me perché le ricordo Babbo Natale (mm si, l’ho già sentita).  Qualcun altro in giro mi dirà che gli ricordo Modi, il presidente indiano. Insomma per gli sbarbati, noi barbe bianche siamo un po’ tutti uguali, da Garibaldi a Karl Marx passando per Santa Klaus. E Modi (new entry)

La mattina dopo alle 6 esco, prendo lo scooter, poso lo zaino grosso da Luan, un negoziante sorridente che ha acconsentito a farmelo lasciare nel suo spazioso retro-bottega per un giorno o due e vado verso le Horton plains. Mauro prenderà il treno per Ella, poi ci sentiremo.

Horton Plains è un parco nazionale posto all’estremità sud dell’altopiano centrale e nel suo punto più a sud termina con un precipizio di 900m da cui, nelle belle giornate c’è una vista su tutta la parte meridionale dell’isola, fino al mare. Io non so perché, sono sempre attratto un sacco da questi precipizi, e lo devo andare a vedere.  Vago su e giù sulle belle colline, incrociando tantissimi studenti che vanno a scuola nelle loro belle divise bianche inamidate,

fino ad arrivare ad una foresta fitta; mi faccio gli ultimi 15km a 20, 30kmh perché le radici degli alberi spingono sull’asfalto e ne rendono la superficie molto a dossi.

Arrivo finalmente al cancello del parco dove mi presentano un biglietto di 13600r, l’equivalente di 41eur. Chiedo se per caso ci sia stato uno sbaglio, un numero in più. Il ragazzo è in imbarazzo, mi dice in tutti i modi che non è colpa sua ma del governo. Guardo per un attimo la strada già fatta, quegli infiniti dossi che non mi va di rifare e con gran fastidio tiro fuori i soldi per il biglietto. Gli chiedo una mappa del parco, mi dice che non ce l’ha ma che posso fare una foto della sua, tanto per farmi incazzare ancora un po’ di più.

Altri 2km e arrivo al parcheggio, passo la guardiola dove mi controllano il biglietto e ascoltano anche loro le mie lamentele, mi perquisiscono lo zaino (starò introducendo specie floreali non autoctone?) e concludono il tutto mettendo la spugnetta che avevo in una tasca laterale dello zaino in un sacchetto di carta(?)

Inizio la camminata di 9km senza rimanere colpito dalla flora e senza vedere animali. Arrivo a World’s end ed al suo precipizio ma c’è un po’ di foschia e la vista non è spettacolare come sicuramente è in giorni limpidi. Chiacchiero un po’ con Claudia, canadese dall’accento francese che ha appena fatto 10 giorni di meditazione ad Anuradhapura, la vecchia capitale del paese.  La meditazione Vipassana, quella che fa Vittorio e che Google ce la descrive così: “la meditazione Vipassana è una forma di meditazione contemplativa la cui pratica si muove dalla concentrazione sulle sensazioni diffuse nel corpo, fino alla contemplazione della realtà attraverso la mente, che viene purificata da tutto ciò che è causa di angoscia e dolore.” Non è una di quelle meditazioni in cui si ripete incessantemente un mantra, ti concentri dapprima sul tuo respiro, parti dalla punta del naso. E poi estendi pian piano il ..raggio di meditazione, da intorno al naso a tutto il corpo.  Mi descrive la giornata tipo, una delle dieci trascorse lì dentro, più o meno così

4:00    Sveglia mattutina
4:30-6:30 Meditazione nella sala di meditazione o nella propria stanza
6:30-8:00 Pausa per la colazione
8:00-9:00 Meditazione di gruppo nella sala
9:00-11:00 Meditazione nella sala o nella propria stanza secondo le istruzioni dell’insegnante
11:00-12:00 Pausa per il pranzo
12:00-13:00 Riposo, colloqui con l’insegnante
13:00-14:30 Meditazione nella sala o nella propria stanza
14:30-15:30 Meditazione di gruppo nella sala
15:30-17:00 Meditazione nella sala o nella propria stanza secondo le istruzioni dell’insegnante
17:00-18:00 Pausa per il tè
18:00-19:00 Meditazione di gruppo nella sala
19:00-20:15 Discorso del maestro nella sala
20:15-21:00 Meditazione di gruppo nella sala
21:00-21:30 Periodo per le domande nella sala
21:30 Ritiro nelle stanze per la notte. Le luci vengono spente

10 ore di meditazione al giorno, per 10 giorni. Il tutto rispettando il “nobile silenzio”, non dici una parola dall’inizio alla fine del corso. E ovviamente il cellulare lo depositi all’inizio e lo riprendi alla fine.

Al momento mi ha un po’ scioccato, ho pensato che non ne sarei mai capace, troppo scettico; però è da allora che ci penso, chissà che non faccia bene davvero un periodo così. Che non insegni davvero a valorizzare quello che è veramente importante nella vita, tralasciando il tanto superfluo a cui diamo troppo spesso un’importanza che non merita. Tipo… le parole di troppo.

Con questi pensieri in testa completo il giro e riparto in scooter in direzione opposta a quella da cui sono arrivato, verso NuwaraEliya. Incrocio un cartello che mi dice di essere “vigilant”, che è zona di leopardi e mi chiedo come dovrei comportarmi esattamente in tali casi. Poi mi fermo all’imbocco di un sentiero segnalato, che dovrebbe portarmi in cima ad una vetta e decido di farlo. All’imbocco un altro cartello mi ripete che ci sono leopardi in giro, ancora una volta di essere “vigilant”, e che è fortemente consigliato di non intraprendere quel cammino da soli.

Mmmm scrollo le spalle e proseguo ma dopo 100 metri la foresta si fa più fitta e mi guardo troppo intorno. Mi sa che fra un po’ inizia a piovere, ehm si, mi è già parso di sentire una goccia, è meglio se torno indietro…

Pranzo a NuwaraEliya decidendo il da farsi. Avevo pensato di arrivare fino ad Hatton per poi andare a fare il pellegrinaggio sullo Sri Pada, anche detto Adam’s peak, una cosa impegnativa, di quelle che parti alle 2 di notte con un sacco di pellegrini, per raggiungere la vetta all’alba. Ma le previsioni non sono buone e non sono i 5000 gradini in salita a spaventarmi, ma gli eventuali 5000 gradini sdrucciolevoli in discesa. Rimando. Mi prometto di tornarci un giorno e prendo la strada di ritorno verso Ella, imbattendomi dopo un po’ nella prevista pioggia. Arrivo ad Ella zuppo. Prendo una stanza in un posto vicino alla stazione e mi faccio una gran doccia. Riprendo lo zaino, restituisco lo scooter, cena dall’indiano e a letto presto.

La mattina successiva prendo il treno delle 6.40 per Kandy, 7ore di treno per fare 157km. Non proprio alta velocità ma anche il costo è relativo, 4 euro più o meno. E poi il viaggio è bello, scorre in mezzo a palme, infinite distese di piantagioni di tè, panorami su vallate punteggiate da stupe (sarà così il plurale di stupa?) e cascate in lontananza.  

Dal treno Ella-Kandy

Certo che a ripensarci, 7h per 157km, neanche la Napoli Portici nel 1839 mi sa che andava tanto piano.

Esco dalla stazione di Kandy e ad attendermi fuori c’è Mauro con l’autista, che lusso. E’ Mangala, che è stato affittato, lui ed il suo Tuk Tuk per tutto il giorno. Posato lo zaino in albergo, si va ad esplorare la seconda città più importante del paese.

Kandy ha un bel laghetto in centro, intorno al quale ci si può passeggiare o fare jogging e ha qualche monumento ben curato, per il resto è bruttina come tutte le città dello Sri Lanka, con le case sparse in giro per le colline circostanti costruite in assenza di un piano regolatore, almeno questa è l’impressione che mi son fatto io. Sulle sponde del lago però c’è un tempio che fa della città la capitale spirituale per i buddisti del paese. È lo Sri Dalada Maligawa che custodisce una reliquia importantissima, nientepopodimeno che un dente del Budda. La sera, dopo una cerimonia fatta di tanto battito di tamburi per creare l’atmosfera, ci si può unire alla coda e uno alla volta passare davanti ad una finestrella dove un monaco tiene esposta la sacra reliquia così che tutti i fedeli possano essere illuminati da siffatta preziosità. Ora, non è che tiene il dente tra due dita. Lui espone lo scrigno dorato dove la sacra reliquia è custodita. E in realtà quello scrigno ne contiene un altro che ne contiene un altro e poi un altro ancora, una cosa tipo matrioske che arriva a ben 7 scrigni d’oro prima di arrivare al dente che insomma nessuno vedrà mai. Io trattengo le mie risate perché lì intorno ho gente che è veramente pervasa da sentimenti intensi e insomma, alla fine invece per me l’effetto è sempre lo stesso, più mi avvicino al cuore pulsante delle religioni, più non capisco come faccia gente intelligentissima a crederci davvero.

Il dente, circondato dai suoi 7 scrigni viene portato in processione ogni anno per le strade della città, in quella che viene ritenuta una delle più belle processioni di tutta l’Asia, la Esala Perahera, con gli elefanti tutti bardati, migliaia di figuranti, ballerini, giocolieri. Ma si fa durante il plenilunio del mese di Esala… ehm… in che mese siamo?  Marzo. No Esala? No. e allora niente, peccato. Esala è sempre o luglio o agosto, ce la perdiamo.  

Facendoci portare in giro dal TukTuk di Mangala, nel pomeriggio eravamo andati a vedere un cimitero di guerra inglese, piccolo e ben curato dove, particolarità interessante, c’erano le tombe di 3 soldati italiani che, a quanto pare avevano cambiato casacca a guerra in corso e si erano offerti all’esercito nemico. Questo più o meno quello che si è riusciti a capire poi chissà che storie ci sono in realtà dietro quelle 3 tombe i cui nomi stonano un po’ in tutta l’anglofonia delle altre lapidi ma che in fondo sono tutti giovani vittime della stessa follia.

Poco distante c’era un curioso ponte nepalese situato accanto ad un ponte in cemento vero e proprio. Camminandoci sopra vengo avvicinato da un signore, un 63enne molto in forma che mi fa capire che il primo Indiana Jones è stato girato lì, e lui ci ha lavorato come stunt, e che se gli do qualcosa si tuffa nelle acqua limacciose marronissime del fiume sottostante. Gli dico che no, non voglio che si butti in quel fiume marrone, che stia tranquillo, ma lui quasi mi implora, dice che sono tanti giorni che nessuno lo paga per tuffarsi, che deve mangiare e allora ok, 1500 rupie (4eur), si spoglia e si lancia (di piedi). Rido per l’assurdità della cosa e resto un po’ in ansia finché non riappare, ma alla fine è tutto contento, alla fine oggi ha “lavorato”.      

A casa di Mangala

La sera andiamo a mangiare a casa di Mangala. Sua moglie ha preparato il tipico piatto nazionale, Rice and curry, riso con tante ciotoline con cui mischiarlo, chi più chi meno ma tutte piccanti, tutte col curry: pesce, pollo, fagiolini, zucca, jackfruit e chi più ne ha più ne metta. Ci sono anche figlia 16enne e figlio 14enne, all’inizio la suocera, poi sparita, e un po’ in disparte il cognato picchiatello.

E’ stato un peccato che l’inglese di Mangala non fosse per niente sufficiente ad avere una conversazione come si deve, altrimenti avrebbe potuto raccontarci molte cose, ad esempio la battaglia in cui si fatto quel buco enorme che ha sul braccio e la cicatrice sullo stinco. Ho capito che era durante la guerra contro l’LTTE, l’esercito di liberazione delle Tigri Tamil ma la sua opinione su quella guerra sporca purtroppo non sono riuscito ad averla.

Il giorno dopo partiamo con lui e la sua versione locale dell’Ape Piaggio verso Sigiriya.

Ci fermiamo strada facendo ad un tempio con un Budda enorme e ad un altro tempio induista (come mi piace questa cosa che incroci la casa di Budda, Vishnu, Dio ed Allah in ordine sparso ma dappertutto) e nel pomeriggio arriviamo a destinazione, al Sigiri Lion Lodge di Ajith, molto raccomandato dalla Lonely Planet, guida che una volta era la bibbia di tutti i viaggiatori ma che ora la vedo un po’ soppiantata dalla modernità digitale.

Gli ultimi 8 o 9km lo guido io il Tuk Tuk, mi alleno per il prossimo viaggio dove di sicuro ne affitto uno e giro tutto il paese a 40kmh. E’ facile, un po’ come guidare la Vespa solo che al posto della prima c’è la retromarcia e tutte le altre marce sono giù.

Sigiriya, o meglio la roccia del leone di Sigiriya, è una roccia alta 180m che si staglia alta in mezzo alla foresta e si vede da chilometri di distanza. E’ un sito archeologico perché conserva le rovine di un antico palazzo, cisterne, piscine e monumenti vecchi di almeno 600 anni. Sigiryia è tutto quello che ci è stato costruito attorno per accogliere i turisti che vengono a visitare la roccia ed è anche un punto di partenza per i safari nei parchi degli elefanti lì vicino. Io la mattina all’alba sono andato sulla roccia di fronte alla roccia del leone, una roccia che si chiama Pidurangala, da dove hai una vista stupenda sulla più famosa dirimpettaia. Ci sono arrivato un po’ dopo l’alba ed è stata una bella scelta perché ho evitato l’ora di punta di tutti quelli colpiti da quel virus pandemico globale che trasmette l’ossessione di andare a fotografare albe e tramonti. E ripeto, a fotografare, non ad osservare.

Rimasto quasi solo con un siciliano che ho incontrato lassù, mi ha detto che mezz’ora prima quel punto era gremito, che ci saranno state una cinquantina di persone tutte a scattare foto al sole nascente. Che poi nasceva da tutt’altra parte rispetto alla roccia. E poi sono scesi. Io sono rimasto lì un bel po’, quasi in solitaria, a godermi lo spettacolo della roccia che proiettava la sua ombra lunga sopra la foresta.

Una volta sceso, mentre Mauro era alle prese con un massaggio Ayurvedico, ho affittato uno scooter e me ne sono andato un po’ in giro, fino all’antichissimo monastero di Ritigala, abitato da monaci buddisti fin dal primo secolo A.C. e poi abbandonato nel 1200, almeno così mi ha detto Daya, la guida che si è fatto tutto il percorso con me spiegandomi tutto sulle rovine archeologiche.

Eravamo solo io e lui, e dopo una mezz’oretta, all’ennesimo “Sir”, gli ho chiesto se si ricordava il mio nome. Ovviamente no, gliel’ho ricordato chiedendogli di usarlo al posto di “Sir”, ma niente da fare. Gliel’ho detto un’altra volta e lui mi ha proprio detto “Oh no no Sir. Me is normal level”, mettendo la mano all’altezza del suo petto, “you very high level, I can’t”, con la mano che superava la sua testa.  Questa abitudine di considerare lo straniero come figura non solo da rispettare ma in qualche modo da ossequiare, considerandola di rango molto superiore, è una cosa che ho percepito spesso durante il viaggio. Anche Mangala, a casa sua, avrà ripetuto mille volte “Sorry Sir”, perché era povero, perché la sua casa non era adeguata ad ospitare siffatti illustri ospiti, perché non aveva il bagno (beh, quello in effetti… ) e mi chiedo se venga da secoli di dominazione straniera quando questa sottomissione era forzata. O se forse non derivi dalla vicinanza dello straniero al Dio che, al di là delle diverse religioni ufficiali, è la divinità non ufficiale che adorano un po’ tutti anche qui, il Dio denaro: Staniero=ricco=da ossequiare. Questa cosa mi metteva un po’ tristezza perché la vedo come una perdita di dignità. Non penso che la povertà debba necessariamente coincidere con la perdita della fierezza di un popolo.

La stradina di ritorno da Ritigala fino ad immettermi sulla strada vera e propria, un paio di km, l’ho fatta guidando lo scooter in mezzo a nuvole di farfalle, bellissimo, sembrava di stare in una favola.

Il pomeriggio ci spariamo un Safari in jeep in un Elephant Park lì vicino, incrociando altre jeep con turisti armati di macchine fotografiche alla ricerca degli elefanti, con tutte le jeep che convergono dove vengono trovati sti enormi mammiferi, anche se non grandi come quelli africani, e ne esco con la promessa che un safari non lo farò più in vita mia. Che gli animali liberi nei parchi li lascerò in pace. E se voglio vedermeli in foto, internet è pieno di foto di fotografi ben più bravi del sottoscritto.

Elefanti, da quelle parti te li trovi anche che camminano a bordo strada. E chi ci passa vicino sta ben attento a non passare TROPPO vicino. Hanno tutti una gran paura degli elefanti perché a quanto pare possono essere molto aggressivi e letali. La sera, dopo un acquazzone di un paio d’ore, Ajith ci dice di stare attenti se vogliamo camminare verso il paese, ‘che gli animali sono contenti di tutta quest’acqua e si avventurano in giro. 

Consiglio accettato, ce ne andiamo da Kolemi, che è lì vicino e fa da mangiare bene.         

Ajith

La mattina successiva dopo colazione Ajith ci porta con il suo Tuk Tuk (come dicevo,chi è che non ne ha uno?) sulla strada principale dove aspettiamo il 49, autobus di lunga percorrenza proveniente da Colombo e diretto a Trincomalee, città costiera a nord est, zona Tamil, fuori dalle rotte battute del sud.

Appena scesi dall’autobus veniamo accolti dall’immancabile “Hallo, Tuk Tuk ?” e ci facciamo portare da un affitta-scooter ad Uppuveli, cittadina pochi km più a nord, sviluppatasi lungo una spiaggia lunghissima e bella che ovviamente attira tanti visitatori. A dormire andiamo all’Elena Garden Resort and restaurant, a 100m dalla spiaggia, dove per la stanza paghiamo l’equivalente di 13eur a notte, colazione inclusa. Elena è una russa che sta lì già da qualche anno e che non capisco come faccia a mantenere il suo business, e la relazione con l’uomo locale, visto che il suo inglese (lingua usata per il business e per la relazione) si riduce veramente a 4 parole pronunciate male. Anche in questa occasione, avrei voluto chiacchierarci un po’ e farmi raccontare (mi piacciono ste vite fuori dall’ordinario), ma ci ho dovuto rinunciare. Ce ne andiamo in spiaggia a goderci le ultime ore di sole della giornata, assistiamo alla pesca da riva di una ventina di persone che tirano da due parti opposte una rete che sarà lunga 1km, con l’assistenza di una barca a motore che gli ha portato il centro della rete al largo, e ce ne stiamo lì in panciolle ad osservare in compagnia degli immancabili cani.

Il vecchio e il mare

Di cani ne vedi dappertutto. Sono molto simili tra loro, taglia medio piccola e marroncini/rossicci all’70%. Un altro 20% sono neri e un 10% di colore vario. Nessuno gli dà fastidio e loro contraccambiano. Se ne stanno mansueti e pigri a bordo strada, a bordo spiaggia o fuori dalle case; da tutte le case. Ho associato il fatto che nessuno gli dà fastidio o li prende a calci o a bastonate, alla religione buddista. Ogni cane può essere stato un uomo in una precedente vita, o può diventarlo in una vita futura per cui far del male ad una cane, o ad un qualsiasi altro animale sarebbe come farlo ad un tuo simile. Magari mi sbaglio ma l’idea che mi sono fatto è questa.  

La sera ci facciamo una cena con pescione e gamberoni al baretto/ristorante sulla spiaggia e ce ne torniamo da Elena a dormire belli soddisfatti.

Il giorno dopo è l’ultimo di vacanza piena, da mattina a sera senza mezzi a lunga percorrenza da prendere.  Si parte in scooter verso Marble beach, la spiaggia di marmo, poco a sud di Trinco, tutta bella pulita perché gestita dall’aeronautica militare. Per andarci passiamo dal centro città ‘che c’è un tempio induista che voglio vedere.

Il tempio è affollato e c’è musica che proviene da dentro. Entriamo e troviamo in pieno svolgimento un matrimonio Tamil, con una specie di stregone che officia il tutto, seduto davanti agli sposi a petto nudo con un sacco di amuleti ed oggetti vari sparsi davanti a lui. Ci sono gli sposi con i genitori accanto, i musicisti seduti poco distante con uno strumento a fiato, un tamburo ed un tamburello ed un sacco di invitati, tutti con costume tradizionale. Noi unici stranieri veniamo visti come un qualcosa che nobilita la cerimonia e ci offrono anche una bibita. Lo sposo, tutto bardato e sudato, ogni tanto mi guarda con la faccia di quello che non vede l’ora che finisca tutto, che proprio non ce la fa più.

Matrimonio Tamil

Il soffitto del tempio è vivacissimo. Sta alla Cappella Sistina come un fumetto della Marvel sta alla Divina Commedia e passo un sacco di tempo col naso all’insù.

  

Mentre Mauro passa tutto il giorno nella bella Marble beach, io me ne torno in città e me la giro in scooter. Passo dal forte costruito dai portoghesi nel 1600 sulla penisola che chiude la centralissima Back Bay e arrivo nell’importante tempio hindu (i miei preferiti) dal nome impronunciabile a precipizio sul mare.

Tutta la penisola è piena di cervi che girano tranquillamente.  Dopo i cani, le scimmie, le capre, le mucche e gli elefanti, in effetti i cervi mi mancavano ma quanto mi piace in questo paese sta convivenza armoniosa tra le varie religioni ed i vari animali.

Me ne torno in spiaggia a raccattare l’adoratore del Dio sole e mi faccio anch’io qualche bagno fino al tramonto, perché la spiaggia è bella davvero

poi si ritorna al giardino di Elena, vado a riconsegnare lo scooter e mi fermo in una chiesa cattolica lì vicino da dove escono tutti canti armoniosi. La differenza che si nota di più con le chiese di casa nostra è che non ci sono panche, tutte le persone nella sala principale sono sedute per terra, mentre in fondo ci sono delle sedie di plastica utilizzate da chi ne ha bisogno, donne incinte, anziani o semplicemente da chi non ha voglia di stare in piedi o sedersi per terra. Dopo un po’ che sono in piedi, un signore mi va a prendere una sedia e me la porge. Non essendo io una donna incinta e non avendo dato segni di stanchezza, mi chiedo, per esclusione, per chi mi abbia preso (……….)

Purtroppo proprio quando arrivo io inizia il sermone, che se mi faceva venire il latte alle ginocchia quando era comprensibile, figuriamoci quando è proferito in Tamil dove l’unica parola che capisco è “Iessu”, che sarebbe Gesù. Aspetto un po’ che finisca e riprendano i canti ma il prete non ne vuole proprio sapere di terminare l’epopea di Iessu e allora me ne vado a farmi una doccia e a prepararmi per la cena. Stasera si è deciso di mangiarci una pizza, comunque essa sia. Incredibilmente troviamo un posto con forno a legna. Siamo gli unici avventori ma anche se la lista delle pizze è alquanto bizzarra e la nostra scelta cade su una con “chicken sausage” e un’altra con Spicy Tuna, devo dire che le pizze in sé non erano niente male, né l’impasto né la cottura.

La mattina successiva comincia il lungo viaggio di ritorno. Comincia alle 7.30 con un Trinco-Colombo in autobus, 265km.

L’autobus di per sé va anche veloce, peccato si fermi ad ogni cenno di mano di chiunque si muova sulla strada e così ci mettiamo 6h.20. Arriviamo a Colombo nel primo pomeriggio, è sabato e il mercato di Phetta è brulicante di vita e per arrivare all’albergo prenotato ad hoc proprio vicino alla stazione, ci dobbiamo far largo tra una moltitudine di persone. E’ un albergaccio ma è quello che ci serve. Posiamo gli zaini, ci facciamo una doccia e ci si butta nella calca a comprare qualcosa da riportare. All’incrocio con il vecchio municipio ritroviamo Babu, il nostro primo chaperone, e ci affidiamo a lui volentieri per farci portare nell’outlet di una fabbrica di tè e in un negozio di souvenir vari.

La sera la passiamo nella zona vicina al C1, il nostro primo albergo, c’è uno street food festival con una band di ragazzi molto bravi, che fanno ballare in strada tutti i presenti, in primis un gruppo di scatenati ragazzi giapponesi. E con la musica ed il cibo di strada ci congediamo dal paese, all’una di notte prenderemo un taxi che ci porterà in aeroporto a prendere l’aereo delle 4 che, benché sia pienotto, riusciamo entrambi a prendere.

In genere, alla fine di un viaggio penso sempre alla prossima destinazione. Questa volta il pensiero è più quello di tornare, mi manca qualcosa, il pellegrinaggio sull’Adam’s peak, il nord fino a Jaffna… Voglio andarmene in giro a 40kmh per tutto il paese guidando un tuk tuk affittato, voglio rispondere a tutti i “Hallo, Tuk Tuk?”, “no grazie, ho il mio”.