Karakoram Highway, 2000

Dal Pakistan alla Cina





  1. Atterrati. Il monitor della Lufthansa ci dà ora e temperatura locali: 00:30, 37gradi. Temo il mezzogiorno di domani.
    Siamo a Delhi di passaggio, si va in Pakistan per percorrere la Karakoram Highway, la strada asfaltata internazionale più alta del mondo che unisce Pakistan e Cina attraverso il Khunjerab pass, aperto solo da maggio ad ottobre e situato a 4693m di altitudine.

    La strada, lunga 1200km, è stata costruita dai due governi in un raro progetto di cooperazione internazionale e terminata nel 1978, dopo venti anni di lavoro e al prezzo della vita diverse centinaia di lavoratori di entrambi i paesi  

    Saliamo su un taxi abusivo per farci portare in città e dobbiamo insistere diverse volte per convincere il nostro autista, un indiano di quelli duri duri, a portarci a Pahar ganj, il quartiere con gli alberghetti che Giacomo conosce. Alla fine sembra convincersi ma ci fa contenti e coglionati e ci lascia a Karol Bagh, un quartiere adiacente.
    Ce ne rendiamo conto solo la mattina dopo uscendo dall’albergo che fra l’altro non abbiamo pagato neanche poco per gli standard di qui. A quell’ora non hai più voglia di sbatterti, di contrattare o di impegnarti in qualunque attività che rimandi il tuo incontro con il cuscino.
    E comunque ci fermiamo solo una notte, la meta è altrove.

    Ce ne torniamo in aeroporto sperando che la Pakistan International Airlines ci carichi. Non succede spesso che ci siano voli diretti tra India e Pakistan ma questo, nel 2000, è un momento in cui le tensioni sono allentate e noi ne approfittiamo. Si, speriamo ci sia posto anche per chi come noi vola in stand-by. Vogliamo andare a nord, vogliamo il fresco.  

    Ce la facciamo, ci imbarcano su tutte e due le tratte. Sul Delhi-Lahore nessun problema, mentre a Lahore abbiamo dovuto aspettare il secondo volo, e meno male che c’era, un Fokkerino piccolo piccolo che è stato sballottato in continuazione, con noi dentro, fino all’arrivo ad Islamabad dove, appena scesi, abbiamo avuto la tentazione di baciare il suolo come il Papa.
    Mai stato sballottato tanto.
    Atterrando a Lahore la hostess ci comunicava che la temperatura al suolo era di 40 gradi, un po’ come a Delhi dove però è così secco che neanche sudi.
    A Rawalpindi invece, la città gemella, più vecchia, affollata e più vera di Islamabad, la sera la temperatura scende e si sta bene.  Siamo al New Kamran Hotel, dove per l’equivalente di 7$ a notte abbiamo una bella stanza spaziosa con bagno e la prima sera, in un ristorante lì vicino, ci spazzoliamo un ottimo chicken balti stracarico di aglio e cipolla (e di cumino, paprika, curcuma, zenzero e chi più ne ha più ne metta) ma in fondo non c’è nessun appuntamento galante in vista per cui chi se ne frega se per tutto il giorno dopo emetteremo odori saporiti da tutti i pori. 

    Capiamo già da questa sera che avremo un po’ di problemi di comunicazione in quanto, nonostante i secoli di dominazione, l’inglese è rimasto radicato solo tra le classi alte e nella burocrazia. In compenso un commensale ci insegna a contare da 1 a 10 in urdu, che poi è come l’hindi: ek, do,tin,char,panch,che,sat,at,nou,das.

    La mattina dopo ce ne andiamo un po’ in giro per la città e finiamo per visitare la moschea intitolata allo Shah Faisal che ci dicono essere la più grande d’Asia (ma mi sa che l’ho già sentita questa, da qualche altra parte) che a quanto pare può contenere fino a 100000 fedeli tra l’interno e gli spazi all’esterno. La moschea è chiusa perché apre solo in certi orari e ci accontentiamo di guardarla dal di fuori. Finanziata con i soldi provenienti dall’Arabia Saudita (il re Faisal, per l’appunto) e opera di un architetto turco, offre comunque uno spettacolo notevole ed impressionante per le dimensioni e per le linee del corpo e dei minareti.

    Proseguiamo il giro turistico andando ad Islamabad, costruita negli anni ’60, una di quelle che si definiscono Città di fondazione, termine che sta ad indicare quelle città nate non spontaneamente ma sulla base di una precisa volontà politica, spesso per farne la nuova e moderna capitale.
    Un po’ come Brasilia insomma.
    La ammiriamo da un parco che la sovrasta e mi rendo conto che è una delle città con più verde che io abbia mai visto (e chi se l’aspettava), si vedono solo gli edifici più alti perché gli altri sono quasi tutti nascosti dagli alberi.  Nel parco dove siamo c’è uno spazio con alberi piantati da capi di stato stranieri in visita, fra cui Mitterand, Kohl e nientemeno che Nicolae Ceausescu, prima di cadere in disgrazia.

    Torniamo a Rawalpindi con un tassista baffuto di nome Rafik, con cui prendiamo appuntamento per le 6 della mattina successiva per andare a Peshawar, ad ovest, vicino al confine con l’Afghanistan, dove arriviamo dopo tre polverose ore di viaggio.

    Peshawar è una città strana, ultimo avamposto governativo in una zona prettamente tribale e dove l’autorità centrale arriva fino a dove vogliono i capi tribù, in un equilibrio sottile ma duraturo, dove ognuno sa di non potersi allargare più di tanto, né le tribù, né il governo centrale. 
    La zona intorno è reputata una pericolosa terra di nessuno e per andare a visitare il Khyber Pass, valico di confine con l’Afghanistan, abbiamo bisogno di un’autorizzazione speciale.
    Rafik sa dove si richiede e ci ci porta direttamente.
    Chiediamo anche il permesso per visitare Darra, il paese dove si costruiscono e si vendono copie perfette di tutte le armi del mondo, un gioiello dell’arte artigianale moderna, ma ci viene negato. Il permesso per raggiungere il Khyber Pass, da esibire ai vari posti di blocco lungo la strada ci viene concesso ma solo alla condizione di pagare anche una guardia armata di Kalashnikov che ci accompagnerà andata e ritorno nel nostro taxi.
    La scorta in questione era un ragazzetto mezzo addormentato che non faceva paura a nessuno ma aveva il fucile e la legittimazione delle autorità e tanto bastava. Da Darra ci siamo passati senza poterci fermare e in effetti la sensazione è un po’ quella del far west, con gli abitanti che passeggiano con AK47 a tracolla e la maggior parte dei negozi sono in realtà delle armerie.
    Dopo più di 1 ora di viaggio arriviamo al Khyber che è uno dei valichi montani più antichi e conosciuti al mondo. Era parte integrante della via della seta e si dice che da qui siano passati eserciti al comando di Alessandro Magno, Dario I, Gengis Khan, arabi, turchi e che abbia giocato un ruolo fondamentale nel Great game, la lunga guerra tattica che oppose gli imperialisti inglesi a quelli russi per cento anni.
    Il valico del passo e l’attraversamento del confine è ovviamente interdetto agli stranieri così ci accontentiamo di guardare l’Afghanistan dall’alto cercando, tramite conoscenze storiche, racconti dei viaggiatori fricchettoni degli anni ’70, reportage di guerra di anni più recenti, di vederci qualcosa di più delle solite brulle e polverose montagne dell’Asia centrale che ci troviamo davanti agli occhi. Ci sono ragazzini che approfittano della rara occasione per venderci delle banconote afgane che andranno ad arricchire di qualche pezzo pregiato la mia collezione.





  2. Il viaggio di ritorno a Rawalpindi è lungo, e l’atmosfera in macchina è silenziosa e assonnata come in tutti i viaggi di ritorno dalle gite.
    Le buche e gli sballottamenti ci impediscono anche di dormire. Tra la musica che esce dall’autoradio di Rafik, ad un certo punto delle note familiari mi colpiscono, anche se il testo è incomprensibile; ma sì, è “Sono un italiano” di T. Cutugno. Ne chiedo lumi a Rafik, lui mi risponde che è una canzone indiana.. (?!) Resto un po’ perplesso ma mi dico che no, Toto non può averci fatto questo, la canzone italiana più famosa d’Asia non può essere un plagio di una indiana, “che cacchio dici, Rafik..” e la chiudo lì.

    Arriviamo a Rawalpindi, giusto il tempo di andare a ritirare i pantaloni di cotone che ci siamo fatti fare su misura per l’equivalente di un Big Mac a Milano, l’ultimo saluto a ‘Pindi e per me comincia, comincia la Karakoram Highway.  Prendo l’autobus delle 20 che mi depositerà a Gilgit, 500km più a nord, 12h più tardi. Giacomo non è in perfetta forma e non se la sente di fare il viaggio massacrante in autobus, prenderà il volo il giorno dopo e ci vedremo lì.              

    Arrivo distrutto, il viaggio è durato 17 ore, dalle 8 di sera all’una del giorno dopo. La cosa più stancante del viaggio non è stata tanto il fatto che non sono riuscito a dormire vista la scomodità del sedile con, come spesso mi succede, lo spazio tra il mio sedile e quello davanti più corto del mio femore, e nemmeno gli scossoni continui. Non sono stati gli spifferi che arrivavano da tutti i diecimila buchi della carrozzeria del torpedone. E neanche tanto il fatto che i passeggeri fumavano in continuazione e accendevano ogni sigaretta con dei cerini puzzolentissimi.
    La vera tortura è stata quella cazzo di musica indiana sparata a tutto volume durante le ultime 6/7 ore di viaggio.
    E la nobilito chiamandola musica, non credo esista al mondo rumore peggiore, nemmeno le unghie sulla lavagna. Io sono aperto alle cose nuove che incontro, il cibo, la gente, le usanze, anche la musica, ma sono convinto che anche i canti folkloristici delle tribù del Burkina Faso siano più ascoltabili di quelle cazzo di voci sguaiate di quelle ciccione a panza di fuori sentite stamattina. Accanto a me c’era un soldato dell’esercito in licenza che ha usato quel poco di inglese che conosceva per dirmi brutte cose sui suoi omologhi indiani con cui si contendono con mezzi più o meno leciti quella regione problematica lì vicino che è il Kashmir per cui hanno già combattuto tre guerre dai tempi dell’indipendenza e, per inciso, le hanno perse tutte e tre.

    Qualche ora prima di arrivare, attraverso il finestrino sulla destra ho ammirato la vetta inarrivabile del Nanga Parbat, chiamato anche La montagna assassina, per l’alto numero di vittime nella sua storia alpinistica. Noi italiani la conosciamo grazie alle imprese di Messner e alla tragica fine di suo fratello nella discesa successiva al raggiungimento della vetta.     

    Contento di essere finalmente arrivato a Gilgit, mi presento alla reception del Golden Peak Hotel. Giacomo non c’è e vengo a sapere che i voli da Islamabad non sono arrivati a causa del maltempo. Chiamo la guest house a Rawalpindi e mi dicono che è appena andato a prendere l’autobus, in caso i voli non decollino neanche domani. L’idea è saggia ma spero solo per lui che il suo autobus abbia un’aria più salubre e soprattutto…. Un autista con migliori gusti musicali.

    Piove, vado a farmi un giro prima di una bella dormita. Mangio qualcosa e mi compro un cappello stile mujaheddin che qui portano tutti. La città non è un granché, solo un lungo bazar che si snoda lungo la via principale ed un buon punto di partenza per escursioni e trekking. Ci resto tre giorni anche perché la mattina successiva, tra i passeggeri che scendono dalla corriera partita la sera prima da Rawalpindi, il mio compagno di viaggio non c’è. Alla fine aveva rinunciato al viaggio in autobus per riprovare l’aereo che è stato cancellato ancora, prima di affidarsi ad un minivan. La pioggia del primo giorno ha lasciato il posto ad un bel sole che mi ha tenuto compagnia per il resto del soggiorno ed ho impiegato il mio tempo soprattutto a socializzare con i locali.
    Un giorno ho accompagnato Sadiq e suo nipote Iqbal a casa loro a Danyor, un paesino nelle vicinanze dove si arriva attraversando un magnifico ponte sospeso che termina in un buco al centro della montagna da cui inizia una galleria che finisce nella valle successiva. 




  3. Ho cenato per due sere consecutive con Sabdar, un 31enne pakistano che era lì per lavoro con cui ho discusso amabilmente di religione. Di solito, quando viaggio in paesi musulmani, a precisa domanda rispondo che sono cristiano come tutti gli italiani, cosa accettata come assolutamente naturale, mentre il termine Ateo ti fa apparire come un mezzo diavolo, quando non è totalmente incomprensibile ed inaccettabile. Quelle sere invece, ho notato l’apertura mentale di Sabdar e mi sono dichiarato spiegandogli apertamente il mio punto di vista e imparando un sacco di cose sull’Islam che non sapevo. Mi diceva che tante delle regole dell’Islam, più che religiose erano, diciamo così, di salute pubblica, per popolazioni in gran parte analfabete che non avrebbero avuto altri modi per farle loro, regole come il rispetto dell’igiene, addirittura il taglio e la pulizia delle unghie, la proibizione di mangiare animali come il maiale che all’epoca erano immondi e pieni di vermi etc. La conversazione è stata piacevolissima e sono stato molto contento di aver potuto discutere in maniera aperta e sincera, cosa che, quando si affronta quell’argomento, mi capita raramente.

    Passando per Sadaar Bazar mi fermavo a chiacchierare bevendo il tè offerto da Mustaq, un signore che si era comprato il negozietto con i soldi messi da parte in 6 anni di lavoro in Malesia.
    E insomma piano piano mi integravo, avevo già qualche amicizia ed i miei punti di riferimento all’interno della città e quando mi stancavo di camminare me ne ritornavo a leggere nel giardinetto interno del Golden Peak Hotel che aldilà del nome altisonante, era una guest house da 5$ a notte, ma molto carina. L’erba del giardino era tenuta al livello giusto da un tagliaerba vivente e costante: una capra legata ad un palo di legno al centro del giardino che brucava l’erba in senso orario, arrotolando man mano la corda al palo accorciando il suo raggio di azione. Una volta brucata quella più vicino al fulcro della corda, il padrone dell’albergo la srotolava e la capra ricominciava. Ingegnoso.
    In un angolo del cortile interno era parcheggiato il furgone Volkswagen con targa svizzera di Hans e Steffi, una coppia sulla 50ina il cui mezzo di locomozione era praticamente la loro casa da 3 anni e mezzo, da quando erano partiti da Zurigo passando i primi due anni nell’Europa del sud e poi puntando decisamente verso est, attraversando Turchia, Iran ed India prima di arrivare ad incontrare me nientepopodimeno che a Gilgit. Siamo andati insieme a vedere una partita di Polo, eredità degli invasori inglesi che resta ancora molto popolare da queste parti.




  4. Ho scoperto anche un posto imboscato dove in una stanza secondaria c’era un computer collegato ad internet e ne ho approfittato per aggiornarmi su quello che succedeva nella madrepatria. Niente di che, è domenica e le notizie sportive hanno il sopravvento sul resto: Garzelli ha vinto il giro d’Italia, Coulthard ha vinto il GP di Montecarlo e il Toro ha ingaggiato Gigi Simoni. Sicuramente sarà gloria.     

    Giacomo è arrivato, ci si ferma ancora un giorno prima di spostarci a nord, verso la Cina. Un pomeriggio, tornando da un’altra partita di Polo (stanno proprio in fissa qui), lui si blocca per strada e mi dice di ascoltare; e si, è proprio il familiare rumore di una pallina da biliardino; seguiamo il toc toc fino ad arrivare alla sala di quello che potrebbe essere un oratorio locale con un sacco di ragazzi che ovviamente appena entriamo si bloccano tutti a guardarci, e raggiungiamo il biliardino, facendo capire di voler sfidare i vincenti. Diventiamo l’attrazione del momento e gli spalti si riempiono in ogni ordine di posti, i ragazzini più lontani salgono sulle sedie per poter vedere e la prima partita la vinciamo 12-11. Nel frattempo si erano già preparati i due più forti per dare una lezione a questi due gringos venuti da lontano e prendono posto di fronte a noi in mezzo alle ovazioni dei compagni. Andiamo subito sotto circondati dalle risate e dalle prese per il culo in Shina, la lingua locale, di tutti i presenti. Va detto che loro giocavano col passetto, che da noi è vietato e abbiamo faticato un po’ a prendere le contromisure ma piano piano abbiamo rimontato e vinto ancora 12-11 provando una gioia che nemmeno se il Toro vincesse la Coppa Campioni. Usciamo dall’oratorio camminando a mezzo metro da terra, mentre dentro i due sfidanti si rinfacciavano colpe e accuse, incazzati perché gli avevamo negato la rivincita.
     
    La mattina successiva, dopo 4 ore di viaggio verso nord su un minivan sgangherato, arriviamo a Karimabad, prendendo alloggio nel Blue Moon hotel.
    Dopo aver contemplato la vista dalla terrazza, siamo rimasti a bocca aperta e non potevamo che fermarci qui. Sotto di noi c’è tutta la verde valle dell’Hunza circondata da montagne altissime tra cui spiccano il Rakaposhi, di 7790m e il Diran di 7266m con le loro nevi eterne.
    Sulla pendice della montagna che forma la valle c’è una scritta fatta con pietre per salutare la persona che dà il nome al paese, Karim Agha Khan, che noi conosciamo per la Costa Smeralda, la Meridiana e il jet set in cui vive ma che in realtà è il capo spirituale dei musulmani ismailiti, religione che va per la maggiore in questa valle e finanzia un sacco di progetti di istruzione, sanità e conservazione per gli abitanti di queste montagne, colmando le lacune del governo locale.
    La sua ultima visita quassù, ovviamente in elicottero, è stata accolta col benvenuto di quelle enormi pietre che formavano la scritta visibile dall’alto, un po’ come gli agricoltori della Borgogna salutano il passaggio del Tour de France formando nei campi enormi biciclette gialle con le balle di fieno.

    La cosa più bella da fare a Karimabad è ovviamente la colazione servita in terrazza affacciati su quel balcone meraviglioso ma per quanto tu voglia prolungarla prima o poi finisce e una mattina abbiamo fatto un’escursione su una cima fino al monumento alla regina Vittoria che uno si aspetta chissà che ma che in realtà è un gran cubo fatto di pietre e nient’altro. Molto meglio il panorama.
    Dopo lunga contrattazione strappiamo una tariffa di 700 rupie a Musa, ragazzetto belloccio di Karimabad, per farci portare in Jeep fino a Passu.
    Nella tariffa ci abbiamo infilato anche le soste a richiesta, per far foto in giro e per attraversare il ponte tibetano sgangherato che incontriamo lungo la via.
    E’ uno dei pochi attraversamenti del fiume Hunza, è lunghissimo, funi d’acciaio e bastoni trasversali, nient’altro. Le funi sono legate a dei tronchi sulle sponde che sono tenuti in piedi da una montagna di pietre. Immagino la 626 ne sconsiglierebbe l’utilizzo ma per fortuna la nostra incoscienza ci consiglia diversamente perché è una bella esperienza e… siamo qui a raccontarlo.  
    Percorrendo la KKH capita di incrociare cimiteri con le tombe dei lavoratori che hanno dato la vita per la costruzione di questa strada, si calcola almeno 800 pakistani e 200 cinesi.
    La cosa strana delle tombe pakistane, molto più elaborate di quelle spartane cinesi, è che alcune sono ornate da quelle strisce luccicanti argentate o dorate con cui noi addobbiamo gli alberi di Natale. 

    A Passu ci fermiamo poche ore, il tempo di mangiar un ottimo Dal(zuppa di legumi) al Passu Inn e di farci una passeggiata fino al ghiacciaio. Ci abbiamo camminato proprio sopra (si, lo so che non si fa, lo so) ed è un’incredibile sensazione, mette paura. E’ un gigante che dorme ma lo senti che è vivo, emette suoni, cammini piano quasi per timore di svegliarlo.

    Proseguiamo fino a Sost, siamo ormai a soli 85km dalla Cina. Ci fermiamo lì per la notte, in una delle 4 case ai lati della strada che formano il paesino. Fuori da un’altra, da quella che è il punto di aggregazione dei paesani (un po’ il bar sport) c’è un tavolo da biliardo. Ci facciamo una partita con i camion colorati pakistani che ci passano accanto, batto Giacomo 2-1 e andiamo a dormire presto.

    A Sost c’è già l’ufficio di frontiera pakistano. Ci facciamo 1ora e mezza di fila insieme a commessi viaggiatori, camionisti e frontalieri vari per avere il timbro di uscita sul passaporto ed il bagaglio controllato alla cazzo di cane.
    Partiamo per il confine ma dopo 10km ci si blocca, strada interrotta per frana. E quello già si sapeva, infatti c’è già un’altra jeep che ci aspetta dall’altra parte della frana per proseguire.
    Quello che non sapevamo è che la strada è stata letteralmente portata via dalla frana e ora c’è la montagna che arriva senza tagli giù fino al fiume.
    Quello che non sapevamo è che la montagna va attraversata, zaino in testa, su un pavimento di sassi mobili cercando di non perdere l’equilibrio e rotolare nel fiume sottostante (molto sotto stante).
    E soprattutto non sapevamo che la frana in realtà non era propriamente finita, dei sassi più o meno grandi continuavano a venir giù ogni tanto per cui l’attraversamento andava fatto con tutte le precauzioni qui sopra descritte ma soprattutto con un occhio ben vigile sulla montagna, in alto a sinistra, per schivare i sassi che potevano venir giù.
    E che in effetti venivano giù.
    Uno ha colpito in pieno quello che ci precedeva nella lunga fila indiana dei vari commercianti, frontalieri etc, che fortunatamente aveva la borsa sulla testa. Borsa bucata ma lui, fortunatamente, salvo e contento come una pasqua. All’arrivo esibiva la sua borsa bucata ridendo eccitato per il pericolo scampato.




  5. Proseguiamo, stipati in 10 in una Land Cruiser, ci fermiamo a vari posti di blocco e in cima al Khunjerab Pass, a 4693m, dove sostiamo una mezz’ora a goderci l’aria rarefatta, facciamo due foto e scendiamo verso il vastissimo impero di mezzo.
    Siamo in Cina, per la prima volta.
    Arriviamo a quella che pensiamo essere la frontiera ma che in realtà è solo il primo posto di blocco e la prima esperienza con le autorità cinesi e no, non è piacevole.
    Restiamo un sacco di tempo bloccati da questo gruppo di soldati coi volti bruciati dal sole che ci studiano con un misto di curiosità e arroganza, consapevoli che qui è la loro discrezionalità che conta. Succede anche da noi, soprattutto quando arrivano i voli dal terzo mondo, solo che… noi non siamo abituati. Te l’aspetti forse quando vai negli USA, e mi dà fastidio anche lì, ma in Asia no. Forse inconsciamente ti aspetti che ti accolgano a braccia aperte e ti ringrazino pure per visitare le loro misere terre. Il senso atavico di superiorità del colono europeo, immagino.
    Comunque in Cina non funziona così, hanno un orgoglio nazionale molto sviluppato a differenza di molti loro vicini e non ti considerano per nulla superiore.
    Da un lato mi fa piacere, dall’altro… e che palle, e dai e facci passare!
    Ai passeggeri della Land Cruiser che viaggiava con noi hanno perquisito minuziosamente tutti i bagagli. A noi ci hanno risparmiato, penso perché il nostro autista era più smagato e sapeva come lavorarseli. Ha portato anche un gruppo di loro a prendere l’acqua ed a fare non so cos’altro, mentre in noi cresceva il fastidio e ci sembravano un gruppo di bambinoni che volevano darsi un tono di importanza andando in giro nella “nostra” macchina.

    Finalmente si riparte, prosegue questo viaggio infinito che durerà 8 ore per percorrere 215km.
    Si va verso Tashkurgan dove c’è la vera frontiera ma ci arriviamo troppo tardi e la dogana è già chiusa.  Le guardie ci ritirano i passaporti, ci fanno lasciare la macchina con tutti i bagagli dentro e ci indicano l’autobus pubblico con cui scendere in paese a passar la notte.
    Appuntamento l’indomani mattina alle 10. Le 10 ora ufficiale, quella di Pechino, si perché la Cina ha ufficialmente un solo fuso orario ma qui in Xinjang hanno il loro orario informale che è due ore indietro rispetto alla capitale, il che è anche logico visto che sono 3 o 4mila km più a ovest. Andiamo al Pamir lodge, tutto quello che abbiamo è quello che portiamo addosso.
    Andiamo per cena in un ristorante gestito da cinesi che potrebbe essere un’ovvietà ma che in realtà non lo è visto che in questa regione i cinesi sono una minoranza, quella occupante. La maggioranza è formata dalla popolazione di etnia Uigura che ha molto più in comune con tagiki, kirghisi, kazaki ed altre popolazioni turcomanne dell’Asia centrale che non con i cinesi.
    E rispetto ai cinesi sono molto più cordiali, affabili ed ospitali, però sono sistematicamente esclusi dai posti di comando nell’amministrazione locale.
    Al ristorante cominciamo a capire che il problema delle barriere linguistiche sarà serio. Il menu è ovviamente solo in cinese e niente foto dei piatti. Nessuno che si sforza minimamente di farti capire a gesti o di portarti a vedere il piatto che non capisci cosa sia. Nessuno sforzo ma non solo. Rimani perplesso quando non ti capiscono neanche quando ordini una Coca cola. Un muro di gomma. O de coccio.

    Differenze che saltano subito agli occhi rispetto al mondo al di là dal confine: si vedono donne in giro, tante quanto gli uomini e possono anche rivolgerti la parola. In Pakistan erano solo delle tende nere ambulanti che vedevi ogni tanto passare. E poi, puoi comprarti una birra, o qualunque altro tipo di alcol, cosa inesistente dall’altro lato del passo. 

    La mattina successiva, la frontiera apre un’ora più tardi di quanto annunciato ma i passaporti vengono regolarmente timbrati e possiamo proseguire verso Kashgar dove arriviamo dopo un viaggio tanto lungo quanto panoramico con l’occhio che vaga senza limiti attraverso spazi immensi.

    Kashgar, con i suoi 180000 abitanti, non è solo il punto di arrivo della Karakoram Highway, almeno per noi che l’abbiamo iniziata dall’altro lato.
    Kashgar E’ la Via della Seta.
    Si dice che con questa denominazione si intende una ramificazione di strade che collegavano la Cina alla Persia e all’occidente ma tutte passavano da qui, un gran caravanserraglio dove ci si organizzava prima di affrontare l’Himalaya o dove ci si riposava e ci si leccava le ferite dopo averlo disceso.
    Di Kashgar ne parla anche Marco Polo ne Il Milione, chiamandola Casciar.  
    Pur non avendola fatta a piedi o in cammello, siamo comunque esausti, impolverati e puzzolenti dopo gli ultimi due giorni di viaggio e ce ne andiamo a stravaccarci al Seman Hotel, una bella stanza con tanto di televisione che accendiamo così più per curiosità che per nostalgia, mentre trasmettono la finale femminile del Roland Garros tra Conchita Martinez e Mary Pierce.
    E a proposito di Francia, è da un paio di giorni che viaggiamo con due ragazzi transalpini simpatici, Arnaud e Fabrice che abbiamo incontrato a Passu e con cui abbiamo condiviso frane, polvere, scossoni e magre cene.

    Appena fuori dall’albergo c’è il John’s Cafe di John Lu, un cinese simpatico anzi, un vero e proprio personaggio che se ne va in giro con una macchina enorme e pacchianissima, con tanto di bandierina rossa su un asta che parte dal paraurti, come fosse l’ambasciatore. John è una fonte di informazioni preziosa e una specie di agenzia di viaggi. Da lui compreremo il biglietto aereo che ci porterà ad Urumqi prima e a Pechino poi. Biglietti cartacei dove nello spazio dedicato al nome del passeggero ci sarà scritto “Mauro” e “Giacomo”, e nient’altro.

    La mattina successiva usciamo dall’albergo belli riposati con una meta ben precisa. Eh sì perché è domenica e domenica a Kashgar vuol dire mercato.
    Ogni settimana la città, i paesini delle colline e delle montagne circostanti si svuotano per confluire nell’area dove si tiene il famoso mercato domenicale. E’ un bazar immenso e la zona più interessante è quella dove si tiene la compravendita del bestiame; centinaia di mucche pecore cavalli capre asini cambiano padrone dopo lunghe contrattazioni ed attenti esami dei denti, del pelo, del peso, della docilità, del galoppo e così via.
    E detta così, uno potrebbe anche immaginarsi delle contrattazioni tra lord in doppiopetto e bombetta, in realtà non credo sia cambiato molto dal medioevo, periodo in cui le associazioni per la protezione degli animali erano molto di là da venire e certe cose duole vederle.
    L’animale è una merce e come tale viene trattato, strattonato, legato, immagazzinato. Se ci aggiungiamo la vendita di ogni sorta di pellicce, soprattutto volpi, sia per abbigliamento che a scopo decorativo e i combattimenti di galli assassini, ce n’è a sufficienza per invocare un intervento della forza pronto intervento dell’ONU, sezione animalisti. 

    Il mercato comunque è affascinante e da vedere, almeno finché resterà così autentico, con la componente turistica molto ma molto marginale e con i vecchietti uiguri orgogliosi di mettersi in posa, rigidissima, per farsi fotografare, chiedendoti loro di farlo e ringraziandoti per averlo fatto (non c’è di che).




  6. Al mercato ho passato un po’ di tempo con due ragazzetti del luogo, Osman e Nonmiricordo, che ne hanno approfittato per praticare il loro inglese.
    Ci siamo dati appuntamento nel tardo pomeriggio per vedere una partita di calcio fra squadre di una scuola, dove giocava e anche molto bene, il fratello più piccolo di Nonmiricordo.
    Poi sono andato con loro ed i francesi a giocare, 4 contro 4 in un campetto vicino casa loro.
    Finita la partita, uno dei giocatori è andato a casa per tornare con un termos di tè solo per noi 3, dandoci ancora una volta prova dell’eccellente senso di ospitalità degli Uiguri.

    La mattina dopo andiamo con i francesi in giro in bicicletta, affittata per vedere le principali attrazioni turistiche di Kashgar, oltre il mercato intendo.
    E così visitiamo l’enorme statua di Mao, la moschea di Id Kah e la tomba di Afaq Khoja prima di fermarci in un parco dove c’era un gruppetto di persone che suonavano il dutar, liuto a due corde tipico dell’Asia centrale. Ci siamo fermati a guardarli e hanno suonato volentieri per noi mentre Fabrice li filmava con la sua mini video camera.
    Alla fine gli ha fatto vedere il filmato e sono rimasti colpiti ed emozionati come se fosse la prima volta che si vedevano in video. 

    Restituite le bici, abbiamo preso commiato da Arnaud, Fabrice, Kashgar e la KKH e siamo andati in aeroporto per prendere un B757 della Xinjiang Airlines per Urumqi, il capoluogo della regione dove sostiamo una notte in un albergo, per noi di gran lusso, vicino all’aeroporto dove abbiamo anche la televisione satellitare che ci permette di vedere Olanda-Rep.ceca su un canale russo.
    L’europeo è cominciato.

    Raggiungiamo Pechino dopo un lungo volo su un Ilyushin-86, aereo di fabbricazione russa di proprietà della ormai familiare Xinjiang Airlines e riflettiamo sulla faccia tosta che hanno i cinesi quando devono fare la coda; ti passano davanti come se niente fosse e devi sempre protestare per rimandarli al loro posto, ottenendo in risposta solo sguardi stupiti dalla tua reazione.

    Atterriamo nella capitale. Al tourist information dell’aeroporto chiediamo consigli su un albergo vicino al centro. Qui siamo sicuri di poter comunicare.
    Prendiamo lo YuYuan Hotel dove restiamo però solo una notte. Il giorno dopo infatti, affittiamo le biciclette e dopo aver visitato il Mausoleo di Mao (il Maosoleo?) andiamo a vedere un altro albergo raccomandato dalla guida, cioè dalle fotocopie della Lonely Planet che avevamo fatto a Kashgar, e decidiamo di spostarci.
    E’ più lontano dal centro, sì ma la stanza è più carina e costa meno, c’è ambiente, internet, un ufficietto informazioni, un giardinetto interno con caffe/ristorante e biliardo (2-0 secco) e soprattutto… la TV in stanza prende il canale dove trasmettono le partite dell’europeo e stasera c’è Italia-Belgio per cui si torna nel primo albergo, check-out, check-in, sveglia alle 2.45 e tripudio alla vittoria per 2-0 (Totti e Fiore).
    La partita finisce alle 4.30 e 2 ore e mezza dopo la sveglia ci ricorda che abbiamo prenotato la gita alla grande muraglia.
    L’autobus, prenotato lì in albergo, ci mette 3 ore per arrivare a Simatai, così si sonnecchia ancora un po’ durante il viaggio. Si arriva alle pendici di una montagna incoronata dal famoso muro.
    La prima parte dell’ascesa si fa con una specie di ovovia a due, uno di fronte all’altro, poi si prosegue a piedi e si arriva, emozionati, ad una delle costruzioni più famose del mondo e possiamo camminare su uno o due dei suoi 6000 e passa km di lunghezza rendendoci conto della grandiosità dell’opera.
    Dopo aver passeggiato lungo il muro, o meglio SUL muro nel suo susseguirsi di saliscendi ed essendomi già perso Giacomo impegnato nelle sue foto, decido di tornare giù a piedi ed imbocco un sentiero in discesa quando mi capita una delle esperienze più strane ed inaspettate.
    Mi fermo davanti ad un cartello con, al di sotto dei logogrammi, la traduzione in inglese e leggo che è vietato a persone con più di 65 anni e ai malati di cuore.
    Mentre mi interrogo su cosa esattamente è vietato, mi sento chiamare da un balconcino di pietra situato un paio di metri più in basso. Una coppia di cinesi mi invita a “go down” e quando chiedo “how?” mi indicano un cavo d’acciaio che arrivava fino in fondo alla valle, poco distante dal parcheggio dell’autobus, sorvolando un piccolo lago artificiale chiuso da una diga.
    Mi intriga.
    Dopo la consueta contrattazione sul prezzo da pagare, scendo da loro, mi infilano un paio di bretelle tra le cosce e il culo, mi agganciano al cavo e mi dicono “GO”, che si traduce in un “Salta nel vuoto”. Oh cazzo!! Gli chiedo se siamo sicuri… “is it safe?” risposta affermativa:”safe, safe”. Oh cazzo cazzo..”is it safe?” “safe safe”, Ok vado, mi lancio, due metri in caduta libera in cui mi passa davanti la vita e il cavo si tira e scivolo verso il fondovalle passando sopra il laghetto e la diga passando il tempo della discesa in risate tra il divertito e l’isterico per l’inaspettata bella esperienza e per la strizza che mi fa stringere le chiappe finché non tocco terra.
    Ringrazio la mia compagna incoscienza che mi fa vivere queste belle esperienze e la mia buona stella che me le fa anche portare a termine e guardo in su pensando che un altro giro me lo farei volentieri.
    Torniamo a Pechino dove ci aspetta un altro giorno che passeremo tra visite alla città proibita e ai grandi magazzini per comprare qualche souvenir. Sicuramente tutti Made in China, ci scommetto