Vedi Sana’a e poi muori

Una volta veniva detto per Napoli. Oggigiorno, tranne che per i sicari casalesi in trasferta armata non credo venga più usato da quelle parti.
M’è rivenuta in mente questa frase dopo aver passato un paio di giorni a Sana’a.
Non perché consideri conclusa la mia esperienza di viaggio, la città più bella rimane quella che non ho ancora visto, ma perché stavolta era così diverso. E’ la prima volta che, trovandomi in una città, una capitale, ho avuto la netta sensazione di aver viaggiato a ritroso nel tempo.


A Sana’a l’unica cosa che ti riporta nell’era moderna sono le auto, quasi tutti taxi che si infilano dappertutto. Altrimenti dal centro della città vecchia puoi camminare per 500m in linea d’aria in qualsiasi direzione senza imbatterti in un edificio che abbia meno di qualche secolo, e tanti ne hanno molti di più.
Edifici alti, palazzi dall’architettura peculiare, tutti storti, finestre e finestrelle che si aprono in ogni punto sembrano quasi incastrate a forza tra le mura dei palazzi.


Uomini e donne
Camminando tra la gente nei vicoli di Sana’a mi sentivo un po’ come Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”, avrei voluto chiedere “ma in che anno siamo?” per sentirmi rispondere “1400. Eh, quasi 1500!!”.
Altre volte avevo la sensazione di essere capitato per caso sul set del film “Brian di Nazareth” dei Monty Python, su strade polverose circondato da donne velate e uomini turbantati con lunghi camicioni stretti in vita da una cintura al centro della quale spunta in bella vista la Jambiya, un grosso pugnalone ricurvo che tutti gli uomini portano con studiata noncuranza in ogni momento della giornata. All’inizio, un po’ intimorito pensi al far west,ad una società dove tutti girano armati; poi ti rendi conto che non è niente di più che un oggetto ornamentale, paragonabile più alla cravatta che i nostri pensionati indossano con rigorosa puntualità ogni domenica mattina.


Solo che qui sono così eleganti sempre e cominciano da giovanissimi, da quando hanno 11/12 anni, più o meno da quando cominciano a masticare il qat. Ma questo merita un capitolo a parte.
Le donne, a differenza di altri paesi musulmani, si vedono in giro, come e più degli uomini, anche se “si vedono” è una parola grossa, diciamo che se ne vedono gli occhi che scrutano incuriositi quei pochi turisti che vedono passare, salvo poi ritrarsi velocemente quando si accorgono di essere osservati a loro volta. Non posso mai evitare di chiedermi come sarà quel volto, quel corpo a cui quegli occhi appartengono, che età, che storia avrà.
E’ strano però notare come la femminilità riesca comunque a sopravvivere e a filtrare da quella gabbia nera che le è imposta addosso e come, dopo averci fatto un po’ l’abitudine ti accorgi di notare la camminata diversa, la postura, il modo di muoversi diverso, lo sguardo.
Fino ad una quindicina di anni fa, lo Yemen del sud era molto più liberale in fatto di usanze, costumi e proibizioni di tipo religioso; poi c’è stata la riunificazione e, come succede quando si combinano due tariffe aeree diverse “the most restrictive rules apply” (scusate la deformazione professionale), così anche nel sud all’improvviso le donne scompaiono e vengono sostituite da fantasmi neri, i bambini vanno a scuola in classi rigidamente separate e così via.
Allah e la palla
Ma a parte obblighi e odiose proibizioni, l’Islam ha anche il suo lato affascinante: la città vecchia è costellata di moschee, alcune antichissime, con i loro minareti pendenti (se sono storte le case figuriamoci le torri).


Una moschea per ogni piccolo quartiere, grande pochi isolati.
Ieri ero a prendere un tè sul tetto di un albergo che svetta più in alto di tutti nel cuore della città vecchia e osservavo estasiato il panorama all’ora del tramonto; ad un certo punto dal minareto di una moschea lontana è partito il canto del muezzin che invitava i fedeli alla preghiera (la quarta del giorno?). Dopo pochi secondi a lui se ne è aggiunto un altro e poi un altro e un altro ancora. In capo a pochi minuti da tutti i minareti della città, perfettamente udibili da quel punto sopraelevato, si è levato un coro a cento voci (Allah-u-akhbar e poche varianti) che, unito a quel panorama al tramonto mi ha commosso fino a farmi venire i brividi.


Certo non mi dava le stesse sensazioni compiacenti la prima preghiera del mattino, annunciata a gran voce da tutti (ma soprattutto dallo stonato pretaccio della moschea adiacente al mio albergo) alle 4.35(!!) della mattina. In quei casi benedico sempre il fatto di non avere un bazooka in stanza. Certo che però una fionda per
puntare il megafono me la potrei procurare…. perché no..
Insomma, dopo il tramonto, pervaso da questo nuovo misticismo, mi sono diretto verso la immensa moschea che vedevo in lontananza dal tetto, illuminata con sapiente maestria da luci di vari toni e colori. Preso un taxi sgangherato (come l’80% dei taxi in circolazione) e officiato quasi tutto il rito della preghiera della sera all’interno di esso per far capire al conducente dove volevo che mi portasse, mi sono ritrovato davanti alla Jamaa Salah, una delle moschee più belle ed imponenti che io abbia mai visto.
I miei timori di essere lasciato alla porta in quanto infedele (come glielo spiego il fervore che ho sentito poco prima lassù…) sono subito evaporati quando il militare a presidio del metal detector all’ingresso, uno di quelli xeno-entusiasti mi ha preso in amorevole custodia, mi ha portato a lasciare le scarpe, con raccomandazione al guardiascarpe di custodire con cura le mie decrepite Clarks, ha fatto sfoggio delle sue 4 parole conosciute in inglese (col solito corollario di “ah, Italia, Roma?” “Roma!” “Roma, Totti!” “yes Totti, ahaha”) e m’ha scortato all’interno affidandomi ad un ragazzino il cui inglese era fortunatamente sufficiente per poterci intavolare una vera anche se basilare conversazione. L’interno della moschea impressiona per maestosità, la cupola è alta 45m, 4 dei 6 minareti sono alti 100m l’uno. I marmi bianchi vengono da Carrara, i cristalli dei lampadari dalla Boemia (perlomeno questa è la mia intuizione dopo aver capito che i marmi sono italiani e i vetri cecoslovacchi(!). I tappeti (la moquette che ricopre l’intero immenso pavimento) persiani, e così via. L’arte decorativa all’interno è di artisti yemeniti (finalmente qualcosa di autoctono).
Il parterre può ospitare innumerevoli file di uomini prostrati, in ordine con le linee ben delimitate dai disegni sulla moquette (le donne si prostrano nelle gallerie al primo piano) e può ospitare fino a 20000 genuflessi. Il venerdì quelli che non riescono ad entrare si prostrano fuori e si arriva ad un totale di 48000 fedeli adoranti.


Accanto alla sala della preghiera c’è una madrasa le cui stanze circondano un cortile illuminato anch’esso con sapienza: grandi colonne rosa congiunte in alto da archi e sotto di loro scalinate convergenti in una vasca d’acqua limpida.
Sono uscito tra i ringraziamenti della guida e del militare per aver visitato la moschea (e lo Yemen) e ho finito la serata passeggiando pervaso da questa aria di misticismo e di buoni sentimenti che m’ha cullato nel sonno; e che è prontamente volata via dalla finestra alle 4.35 insieme ai bestemmioni che lanciavo al muezzin che, limortaccisua, ma come si fa, alle 4.35 (‘azzo, la fionda, non ho comprato la fionda!!).
In realtà ho provato a rivivere la sensazione anche il giorno dopo, ma mentre ero per strada verso il tetto dell’albergo in alto, sono capitato in mezzo ad un gruppo di ragazzini che giocavano a pallone in una piazzetta; altra illuminazione mistica che, passato un breve attimo di esitazione, ha prevalso sull’altra.
Insomma ognuno ha il dio che si merita e probabilmente io me ne merito più uno rotondo che rotola per terra e posso in qualche modo modificarne il comportamento, piuttosto che uno inflessibile e di forma indefinita che galleggia in cielo. E la certezza ce l’ho avuta quando Ibrahim ha segnato il gol del 5-4 in rimonta di faccia, insaccando un mio preciso assist (che qualche maligno chiamerebbe un tiro sbagliato). Apoteosi e abbraccio finale con Ibrahim che menzionava l’onnipresente Totti (che sarà che a me oggi fa pensare più ad un operatore telefonico che al pallone ma mi sembra oggettivamente sopravvalutato da queste parti)
Il paradiso sul tetto può attendere
Il qat
Oggetto di culto altrettanto importante in Yemen è il qat.
Il qat non è solo una pianta, le cui foglie vengono gentilmente masticate e accantonate all’interno di una guancia. Il qat è una usanza sociale la cui osservanza è totale, senza eccezioni. Lo masticano dal presidente fino all’ultimo sguattero. La frequenza con cui lo masticano va in base alla disponibilità personale; Chi se lo può permettere lo mastica tutti i giorni, principalmente durante la sua lunga pausa pranzo, diciamo dalle 13 alle 17. Durante le festività tutti trovano delle risorse per il qat, così come da noi in tutte le case c’è una bottiglia di spumante a capodanno.
Ma che effetto ti fa il qat?
Parlando con la gente (con quei pochi con cui riesci a penetrare le barriere linguistiche) ho sentito di tutto, da effetti simili a quelli della cocaina (ti tira su), a quelli della marijuana(ti rilassa), all’LSD (schizzi e hai le visioni), fino ad un misto di tutto ciò, a seconda della qualità della pianta e del tuo stato d’animo, il tutto in una forma molto blanda; per me impercettibile. Probabilmente è una di quelle droghe i cui effetti li devi “capire” per sentirli.


A proposito, per gli yemeniti ovviamente il qat non è assolutamente una droga, anche se il WTO la pensa diversamente e l’ha inclusa nella lista delle sostanze con rischio di dipendenza.
Nel grande e potente vicino Arabia Saudita ne è vietata coltivazione e commercio ma qui la tradizione è forte e non credo la estirperanno mai. Questo fa pensare alle nostre, di tradizioni, al perché la marijuana è proibita e il vino e la birra no. Probabilmente perché gli antichi romani avevano le viti e non hanno fatto in tempo ad importare la canapa; e così c’era l’altarino per bacco ma nessuna divinità con i dreadlocks.
E chissà se Colombo, invece che ad Haiti fosse sbarcato sull’isoletta successiva che semìni ci avrebbe portato insieme a patate e pomodori..
In ogni caso, tutti questi uomini con la guancia gonfia che vedi in giro smuovono anche l’economia, nel bene e nel male: è vero che la coltivazione di qat rende più di ogni altro raccolto e che ciò è un bene per i contadini e tutte le mini agro-aziende a gestione familiare del paese, ma dall’altra parte chi non lo coltiva spende in qat circa il 20% del proprio reddito, e in un paese povero come questo mi dà l’idea che siano risorse tolte a finalità ben più importanti. Poi sono stati pubblicati studi che danno un’idea di quante ore lavorative vengono bruciate da gente che passa 4 ore della sua giornata a masticare e chiacchierare (il qat è un passatempo sociale, si fa in compagnia) ma insomma, non dovremo mica andare tutti di corsa e dire addio ai piaceri della vita per sentirci dire che il PIL è aumentato, no?
Masticare il qat con i locali è una cosa che ti ci avvicina molto, tutti ti guardano e ti trattano con complicità, un pò come se un eschimese entrasse in un’osteria di Bassano del Grappa e bevesse un bel pò della grappa locale, immagino.


Peccato che quasi tutto quest’effetto socializzante nel mio caso, sia stato annichilito dall’assenza di effettivi strumenti di comunicazione
(anche il linguaggio dei gesti è diverso), per cui dopo il solito rituale italia-roma-totti-ahaha e qualche altro frustrante tentativo di saperne di più, si arriva ad un caldo silenzio dove ognuno mastica le proprie foglie, loro chiacchierano e io leggo (o scrivo).
Ogni tanto ci si incrocia lo sguardo, Palik mi guarda le foglie e mi chiede “Tamam?(buono?)”, ed io, con esagerata approvazione “Tamaam!!”, e tutti i presenti “AAAHH”, tutti contenti
Tamam Yemen!!

TROVA L’INTRUSO

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