Baghdad ’23

L’idea è nata così: ho una settimana di ferie prima di Natale ed ho pensato di farmi un giro nella città vecchia di Baku. Poi un giorno ricevo una chiamata da colleghi di Najaf per cose di lavoro ed alla fine chiedo di Luqman, un ragazzo che conobbi ad un corso a Doha anni fa e con cui ero rimasto in sporadico contatto. Mi dicono che si è trasferito a Baghdad. Dopo qualche minuto, evidentemente avvisato che questo italiano  ha chiesto di lui, mi manda un messaggio di saluto.

Gli chiedo se Baghdad è una città sicura da visitare.

La risposta è lapidaria:

E’ fatta, si va lì.

Due settimane dopo sono sull’aereo sfruttando il mio annual ticket su cui pago solo le tasse, privilegio per noi lavoratori di compagnie aeree, lo so.  

Trovo Luqman la mattina al lavoro in aeroporto quando arrivo, mi scorta nel posto dove si chiede il  VOA Visa On Arrival, e ci diamo appuntamento telefonico per la sera. Mentre attendo faccio conoscenza con un ragazzo cinese, manager nel settore estrazioni petrolifere, che mi offre un passaggio in città, visto che ha una macchina con autista che lo sta aspettando. Accetto, il tempo di comprarmi una SIM locale e si parte.

Sotto il suo ufficio ci aspetta un suo collega che vive lì da 3 anni. Tutti e tre andiamo a farci una passeggiata alla ricerca di un posto di cambio aperto dove comprare un po’ di Dinari, al cambio di 1550 IQD / 1EUR. Cinesi anomali, molto estroversi, gentili, comunicativi e con un ottimo inglese.

Mi chiamano un taxi tramite Careem, la versione mediorientale di Uber, che funziona benissimo visto che la macchina gialla arriva 1 minuto dopo. Saluto, ringrazio e parto con Carrar, ragazzo 28enne, alla volta di Sadoun st., sede dell’albergo prenotato su booking il giorno prima.

Mi rendo subito conto che il traffico di Baghdad è pazzesco. Il trasporto pubblico è inesistente, al di là di minivan privati senza nessuna indicazione che, o conosci o non prendi.

Il 90% dei milioni di automobili in circolazione sono giapponesi o coreane e circa un terzo sono gialle (taxi). Le macchine riempiono ogni vuoto che si forma davanti ad esse con piccoli colpi di clacson che avvisano il vicino perché non faccia il minimo spostamento laterale che le andrebbe a toccare. I semafori ci sono ma vengono completamente ignorati, la libertà di andare avanti o l’obbligo di restare fermi è dettata dal traffico, non dal rosso o verde. Ogni cento metri sul lato della strada c’è un’autoblindo militare con un soldato che spunta fuori dalla torretta in casco e giubbotto antiproiettile impugnando una mitragliatrice pesante fissata sul tetto. Più si è vicini alla zona verde, quella delle ambasciate, e più ce n’è. 

All’inizio fa impressione, poi ti rendi conto che quando questa è una presenza costante ti ci abitui e la vista di tutto ciò non ti impressiona più di un lampione o di un cartello pubblicitario.

Arrivati al mio Dijlat Al Kheir Hotel pago e saluto Carrar che mi lascia il suo numero in caso ne avessi bisogno in questi giorni. 

Prendo possesso della mia bella stanza con vista sulla via principale, poso lo zaino ed esco a farmi una passeggiata di familiarizzazione con la città.

La prima cosa che mi colpisce è la sporcizia. Capisco che non c’è il minimo senso ecologico, la strada semplicemente è la pattumiera di tutti. La mattina presto, dal balcone della mia stanza di albergo vedrò, ad ogni risveglio, mezzi e uomini addetti alla pulizia della strada lavorare alacremente ma ogni giorno sono punto e a capo.

Mi dirigo verso un monumento che voglio assolutamente vedere: le mani della vittoria o le spade incrociate, ufficialmente conosciuto come Le spade di Qadisiyah, è uno dei pochi monumenti legati all’epopea di Saddam Hussein che non sono stati abbattuti.  Alle due estremità di una grande viale utilizzato per le parate militari, ci sono questi archi costituiti da due mani tese che reggono ognuna una spada. Le due spade si incrociano al centro ad una altezza di circa 40m.

Ci arrivo dopo una lunga camminata ma all’ingresso del viale c’è uno dei tanti posti di blocco e l’ufficiale in comando (l’unico che parla un po’ di inglese) mi dice che non posso entrare, neanche per 20 metri a fare due foto. Mi dice che si può ma dall’altra estremità del viale. Gli chiedo come faccio ad arrivare all’altra estremità visto che possono passare solo le macchine e non i pedoni. Mi dice che ok, andrò con una macchina, che problema c’è. Chiedono al primo che passa di portarmi di là, salgo con lui e andiamo dall’altra parte solo per vedermi opporre lo stesso diniego. Il brav’uomo mi riporta allora dove mi ha preso e se ne va. Resto a parlare ancora con l’ufficiale per cercare di convincerlo ma dopo 2 minuti mi rendo conto di non avere più il telefono.

Sbianco.

Ce l’avevo in mano poco prima, dove può essere? È sicuramente rimasto nella macchina. Chiedo a qualcuno di chiamarmi ma poi realizzo che il numero che c’è è quello iracheno che ovviamente non so a memoria. Cerco la carta corrispondente in tasca ma l’ho lasciata in albergo. Tutte le soluzioni che mi vengono in mente passano per il telefono. Solo in questi casi ci si rende conto di quanta parte della nostra vita è collegata a quel rettangolino metallico. E la mia SIM italiana è all’interno della cover.

Prendo un taxi di passaggio e mi faccio portare in albergo. Tiro fuori il numero iracheno e chiedo alla reception di chiamare.

Suona ma non risponde nessuno.

Mi dicono che se l’ho prenotato con Careem si può risalire all’autista ma io non solo non l’ho prenotato con Careem ma non è neanche un taxi e non so neanche come si chiama. Ci provano altre volte ma senza esito finché non gli dico di fermarsi che se si scarica poi è veramente finita. Esco, vado da un’agenzia di viaggi per chiedergli di chiamare la Qatar Airways in aeroporto e farmi dare il numero di Luqman per avvisarlo che il nostro appuntamento telefonico avrà un problema e dirgli almeno dove sono a dormire ma in aeroporto non c’è nessuno.

Torno in albergo, riproviamo a chiamare ad intervalli regolari e al 13mo tentativo c’è risposta. L’uomo, che a differenza del 99% dei suoi connazionali parla addirittura inglese, si offre di venire in albergo a riportarmelo ma gli dico di non disturbarsi, che prendo un taxi e vado io da lui, lo faccio richiamare dal tassista appena sono su. Lo rivedo con enorme gratitudine, ci facciamo due chiacchiere e nel frattempo, senza farsi vedere, mi paga il taxi per l’andata e per il ritorno e non vuole sentire ragioni. “This is the Iraqi way” mi dice. Non ho parole.

La sera, con Luqman e altri 6 colleghi andiamo al Baghdadi Restaurant, sulle sponde del Tigri che in arabo si chiama Dijlat, come il mio albergo, a mangiare il piatto tradizionale iracheno, un pesce chiamato Masgouf.

Il Masgouf è una specie di carpa che nuota nel Tigri e nell’Eufrate. Una volta pescato si tiene in grandi vasche nel giardino del ristorante e una volta ordinato lo si cuoce appeso su pali che circondano un braciere enorme. Il tempo di cottura è lungo e nel frattempo si placa la fame con un sacco di piattini con humus e un sacco di altre cose vegetali (i mezes). Il pesce poi te lo servono, condito alla perfezione, in grandi piatti che mettono al centro della tavola e ognuno lo “attacca” dal suo lato aiutandosi con pezzi di pane/pitta. E’ buonissimo! 

La nostra tavolata era formata interamente da uomini e, guardandomi intorno, non ho visto una donna. A mia domanda specifica mi è stato risposto che c’è un’altra sala per “families”. Ho chiesto cosa sarebbe successo se due donne, due amiche fossero entrate nella nostra sala mettendosi sedute lì accanto a mangiare, le sarebbe stato permesso? “Certo che sì” è stata la risposta, “ma sono loro che non lo farebbero perché sai, noi maschi siamo sguaiati, a loro darebbe fastidio”. A me è venuto da pensare che in realtà sarebbero viste anche come delle “poco di buono”, alla ricerca di qualcuno a cui darla via insomma. Da quanto ho capito in Iraq non ci sono proibizioni per legge, come l’obbligo del hijab in Iran per intenderci. Qui è tutta una cosa di tradizioni e direttive familiari ma alla fine funziona esattamente come se fosse obbligatorio. Immagino che in Sicilia 100 o 200 anni fa non fosse tanto diverso. Finita la cena, ancora una volta mi viene impedito di tirar fuori il portafoglio (Iraqi way). Comincio a chiedermi se potevo evitare di cambiare visto che mi pagano tutti tutto….

Saluto la combriccola e mi avvio a toccare il cuscino dopo 40h ininterrotte di veglia.

La mattina successiva, mio primo giorno pieno in Iraq, voglio andare a vedere un minareto stupendo. Ho visto le foto e me lo voglio godere dal vivo. Il trasporto collettivo per Samarra, un centinaio di km più a nord, parte dall’Alawi garage. Le stazioni degli autobus sono chiamate garage ed in effetti è un nome più consono visto che di autobus non ce n’è traccia, solo auto. C’è un posto dove si mangia, un po’ di bancarelle, gente che gira e tassisti che si procacciano i clienti a voce: “KERBALA KERBALA KERBALA KERBALAAAA” o “FELLUJE FELLUJE FELLUJEE “, che deve essere la Falluja di triste memoria, o “SAMARRA SAMARRA SAMARRA” eccomi! Samarra! io! presente! Il tassista mi porta alla sua macchina e mi fa capire che devo aspettare lì finché non trova gli altri 3 occupanti, faccio un po’ di giri per bancarelle, c’è anche un costume misura bambino di babbo natale anche se l’aspetto e lo sfarzo dei mercatini di Natale nostrani è a distanza siderale.

Dopo 20 minuti circa si trova il quarto e si parte. La strada è buona, il traffico intenso ma scorrevole come direbbe Isoradio. La strada è costellata di immagini dei martiri della guerra Iran-Iraq, durata dal 1980 al 1988 e che fece più di 1 milione di morti senza concludere nulla, nessuna modifica territoriale, niente. Ripenso alle stesse foto che ho visto al di là della frontiera, in Iran, stessi monumenti ai “martiri” di quella guerra inutile, stessi cimiteri, stessi volti di ragazzi ventenni morti a centinaia di migliaia senza motivo, solo per la stupidità di chi li governa.

Durante il viaggio attraversiamo 2 o 3 posti di controllo dove mi chiedono il passaporto. Passaporto che mi ritirano proprio nell’ultimo posto di blocco, quello all’ingresso di Samarra che è città santa, piena di pellegrini e le misure di sicurezza sono stringenti. Al posto del mio prezioso documento mi rilasciano una carta plastificata numerata facendomi capire che rifaremo lo scambio quando me ne andrò. “Ok, Mauro, è normale, non preoccuparti, è normale”.

Scesi gli altri 3 passeggeri, l’autista prosegue per 1km per portarmi alla Grande Moschea del venerdì di Samarra di cui in realtà rimangono solo le mura esterne, lunghissime, all’incirca 250m x 150m, e l’annesso minareto che invece è tutto intero ed è stupendo con la sua altezza di 52m e la sua forma a spirale. Peccato non ci si possa salire a causa di lavori di ristrutturazione che sono iniziati, da quanto ho capito, un anno fa e andranno avanti chissà quanto.

Sto lì a guardarmi questa bellezza da solo in questo ambiente polveroso immaginandomi le file di turisti che ci saranno in un ipotetico futuro se questo martoriato paese guarirà e diventerà meta di gruppi e comitive, con i loro grandi autobus in visita. In effetti però un parcheggio degli autobus c’è. Ed è anche pieno di mezzi gran turismo. Ma visto che sono praticamente da solo, la cosa mi lascia un po’ perplesso.

Il mistero comincia a dipanarsi quando, tornando verso la grande rotonda dove sono scesi i miei compagni di viaggio, vedo una gran folla uscire da un viale, uomini e donne con queste ultime tutte coperte e velate di nero. Pellegrine.

Imbocco il viale contromano;

dopo aver passato i dovuti controlli, certo.

È un fiume di persone quello che esce in direzione opposta alla mia, ma quando arrivo alla moschea Al-Askari ce n’è ancora tanta. Nel frattempo ho raccolto un po’ di informazioni tramite il mio amico che sa tutto e che comincia con la G. La moschea contiene le tombe di 2 grandi Imam sciiti ed è meta di pellegrinaggi da tutto il mondo o quantomeno da tutto il mondo sciita. Il piazzale davanti al luogo santo è lastricato di marmo. Lascio la macchina fotografica dal custode nello sportelletto dedicato, le scarpe negli scaffali appositi, mi sottopongo alla terza perquisizione da quando ho preso il viale ed entro nella moschea dalle grandi cupole dorate.  

Mi faccio un giro sui caldi tappeti col naso all’insù attratto dallo sfarzo e dal luccichio dei soffitti, poi mi siedo su un morbido tappeto dietro a devoti che si piegano e si genuflettono più volte.

Altri fanno il giro del sacrario dove sono custodite le tombe dei santi (o equivalente musulmano) toccando con mano le grate, pervasi da un fervore religioso che noterò in altre moschee e che non ha corrispondenza nelle nostre longitudini. Mi aspetto qualcosa di simile solo se il Napoli vince la Champion’s, per dare un’idea del trasporto sentimentale.

L’atmosfera all’esterno è di festa, ci sono gruppetti che si fanno la foto davanti alla moschea, il capogruppo col cartello che richiama i suoi verso l’uscita, una gita domenicale insomma.

Di fronte ad un ingresso laterale c’è un ristorante/mensa enorme dove vengono forniti pasti caldi gratis, riso e salsa di fagioli (credo), pane ed acqua. Ne approfitto anch’io infedele visto che si è fatta ora di pranzo e non ci sono altri posti. E poi perché dovrei? “When in Rome do as the romans do”, dicono gli inglesi.

Nel frattempo è uscito il sole dopo una mattinata di tempo grigio e bianco e allora me ne ritorno a vedere il bel minareto davanti ad uno sfondo azzurro anziché bianco, e poi a prendere il taxi di ritorno. Seguo il richiamo BAGHDAD BAGHDAD e sono il quarto cliente per cui si parte subito. Ripassiamo dal posto di controllo dove ritiro il passaporto e si va.

In macchina nessuno mi parla, probabilmente non sanno come fare o magari per non disturbare ma so che se lo chiedono chi è questo, che ci fa, dove va. Sblocco l’impasse (e la curiosità) dicendo Ani bin Aitalyya (vengo dall’italia), e da lì parte una conversazione tramite la versione traduttore del mio amico G che andrà avanti fino a destinazione, tra una sigaretta e l’altra fumata da tutti i miei 4 compagni di viaggio, compreso l’autista. In Iraq ho visto poca gente che non fuma. Fumano tanto e fumano dappertutto, macchine, ristoranti, hall di albergo. Solo in aeroporto, dopo i controlli non ho visto gente che fumava. In compenso tra le sedie in sala d’attesa giravano piccioni.

La mia solita diffidenza Europea mi porta a vedere quanto pagano gli altri (l’equivalente di 10 dollari) per pagare lo stesso e non farmi fregare ma alla fine mi pento un po’ perché mi rendo conto che non ci hanno proprio pensato a farmi pagare di più. Non è uno di quei paesi.

La sera mi metto d’accordo con Carrar, via whatsapp, per andare a Babilonia il giorno dopo. Con taxi collettivo bisognerebbe andare prima ad Al Hilla, sempre un centinaio di km da Baghdad, questa volta a sud e poi trovare un mezzo privato per andare a Babilonia per cui mi evito lo sbattimento e vado con trasporto individuale, contrattando un po’ ma neanche più di tanto.  

Babilonia in una parola. Babilonia semplicemente non c’è più. Quello che vedi, le mura, la porta di Ishtar è tutto ricostruito in tempi recenti. Unico reperto autentico, a parte qualche pietra in giro, è la statua di un leone che non è neanche conservata molto bene.

Si trovano sicuramente più reperti nei musei di Londra, di Parigi o di Berlino dove fra l’altro c’è una ricostruzione della porta di Ishtar molto più imponente e conforme all’originale (e con parti autentiche) di quella che si trova nel suo sito originale (metro più, metro meno). E qui non voglio aprire la polemica sui “saccheggi archeologici”.

Come ulteriore aggiunta alle distruzioni dei secoli nei confronti di Babilonia, c’è anche in tempi più recenti quella degli americani che parcheggiavano i loro blindati su pavimenti millenari o costruivano eliporti vicino a mura così antiche da non resistere allo spostamento d’aria. Se guardiamo al lungo corso della storia possiamo considerare questa come una delle tante invasioni e distruzioni di Babilonia e pensare che tra il soldato di Serse o di Alessandro Magno e il super-equipaggiato marine americano ci passano solo un bel po’ di anni ma anche quest’ultimo fa parte della storia infinita di distruzione e rinascita di questo posto.

Resta la bella sensazione di essere nel sito dove una volta sorgeva la città più grande del mondo, la prima metropoli a raggiungere i 200000 abitanti. C’è una lapide all’ingresso che descrive in sommi capi la vita della città. Parla della fondazione da parte di Hammurabi nel XVIII secolo a.c., della progressiva decadenza fino alla rinascita in grande stile quando il sovrano era Nebuchadnezzar (si dai, Nabuccodonosor) durante il VII secolo a.c., insomma in quelle 2 pagg che studiamo a scuola ci passano 1200 anni. Milleduecento!!

Cammino tra le mura cercando di immaginarmi il viavai di persone e carretti e animali di un’epoca inimmaginabile e vedo su una collina poco distante quello che è conosciuto come Il palazzo di Saddam, costruito negli anni ’90 su una collina artificiale che domina il sito di Babilonia e il corso dell’Eufrate. Ci andiamo e ci troviamo un sacco di scolaresche, dalle gite di una mattina delle elementari alle feste di laurea. Ragazzini che scorrazzano più interessati a quei rari turisti che si ricominciano a vedere che all’oggetto didattico della loro gita. Ti scrutano, provano quelle due parole di inglese che hanno imparato, i più audaci ti prendono in giro facendo ridere i compagni, ti chiedono una foto.

Tutto il mondo è paese.

Il palazzo, una volta sfarzoso, con pavimenti in marmo e affreschi è ora lasciato alla mercé di chiunque voglia vandalizzarlo, scrivere sui muri o pisciare in una stanza. Credo che puoi anche decidere di buttarlo giù se vuoi, in spregio a Saddam, ma se lo tieni curalo, recuperalo, valorizzalo facci qualcosa, che so, un museo. Vedremo che succederà in futuro.

La sera, dopo aver chiesto al mio amico G, se non proprio Baghdad by night, un consiglio su cosa è ben illuminato e bello da vedere in città, mi ritrovo alla moschea Al Kadhimiya ed è in effetti un’esplosione di luci, non solo della moschea in sé ma anche del viale affollatissimo che porta alla moschea stessa. Immaginiamoci un Viale della Conciliazione, con S. Pietro alla fine, tutto pedonale con negozi, bancarelle, ristoranti, fotografi professionali per foto ricordo, addirittura mini-trenini che scorrazzano signore anziane velate di nero da una parte all’altra.

Le misure di sicurezza anche qui sono stringenti e mi chiedo se non siano un pochino esagerate quando, ripercorrendo fatti storici recenti trovo una lista impressionante di attentati ai danni dei pellegrini sciiti: autobomba, attacchi suicidi multipli nel periodo 2004-2016 che mi fanno pensare che no, le numerose perquisizioni all’ingresso non sono esagerate per niente.

A fine agosto 2005 si era radunata una folla di un milione di persone in marcia verso la moschea. Nella processione che passava lungo il Tigri, pare che qualcuno gridò di aver visto un uomo con un giubbotto esplosivo vicino a lui. Questo portò ad una fuga di massa verso un ponte che era stato precedentemente chiuso. La folla sfondò il cancello e si accalcò presa dal panico, sfondando il parapetto del ponte. In tanti morirono calpestati, altre centinaia fecero un volo di 10 metri giù nel fiume. Quel giorno morirono in 953. E non lo sa nessuno. Immagino che in quei giorni le pagine dei quotidiani, piene di storie e contro storie legate all’uragano Katrina, relegassero la strage sul ponte di Baghdad nella sezione trafiletti del “finché si ammazzano fra di loro….”

Ultimo giorno in Iraq, mi alzo presto per farmi un giro a Baghdad. In realtà mi sveglio presto perché la finestra della mia camera dà sulla iper-trafficata e iper-clacsonata Sadoun st. ma ok, viene bene. Prendo un taxi che ci metterà mezz’ora per fare 4km, verso il monumento ai martiri, due enormi semicupole turchesi alte 40m che a seconda del punto di osservazione possono sembrare un tutt’uno o due entità separate, cosa che in effetti sono. Il monumento, come stupirsi, è chiuso per lavori e mi consentono solo di fare qualche foto dal cancello di ingresso.

Non ho voglia di rifarmi il traffico di ritorno a così breve distanza da quello di andata, vedo un luna park lì vicino e vado a farci un giro. O meglio, penso di andarmici a fare un giro perché vengo bloccato ancora prima dell’ingresso. A gesti mi dicono che è chiuso. Ma come, e tutta quella gente? Mi portano nell’ufficio della direttrice, donna vestita all’occidentale con folta chioma nera scoperta ed un inglese impeccabile, finalmente. La donna (Lucy) mi invita a sedermi, mi offre il tè e mi spiega che non posso entrare perché ci sono scolaresche femminili e durante la loro visita gli uomini non possono entrare. Lei è libanese e vive in Iraq da 8 anni, resto lì più o meno 2h a chiacchierare ed a farmi raccontare l’Iraq e gli iracheni da chi li conosce bene ed entriamo in gran sintonia, come fossimo vecchi amici.

La lascio per andare al museo nazionale iracheno dove arrivo alle 1240 per scoprire che chiude alle 13 (G, ma non mi avevi detto che chiudeva alle 15?) Insisto per entrare, pago il biglietto per intero solo per farmi una camminata rapida all’interno per 20 minuti alla ricerca dell’artefatto wow, cosa che però non trovo. Colpa della mia ignoranza archeologica, lo ammetto.

Mi avvio a piedi verso il “central park” di Baghdad, chiamato Zawra. Mi faccio un giro anche allo zoo che è dentro il parco (non si fa, lo so ma è per interesse storico, se ne parlò tanto durante l’invasione del 2003, con lo zoo bombardato e gli animali feroci in giro per la città)

Dall’altra parte di questo immenso parco mi trovo vicino a quel posto di blocco con i soldati che non mi fecero entrare a far la foto delle spade incrociate. Ci riprovo, faccio lo gnorri, sicuramente troverò altri soldati più accondiscendenti, sicuro, mica come quei rigidoni di 3 giorni fa. Arrivo lì e i soldati sono esattamente gli stessi, compreso l’ufficiale tutto di un pezzo. La cosa sorprendente è che mi salutano con tanti sorrisi, vogliono sapere se ho ritrovato il telefono e questa volta l’ufficiale, benché un po’ intimorito per la presenza delle telecamere che spiano la sua violazione delle procedure, mi fa scortare fino ad un punto di osservazione ideale per qualche foto.

Tornato in albergo a prendere lo zaino chiacchiero un po’ nella hall con una ragazza newyorkese che, senza nessun timore viaggia in Iraq tutta sola portando in giro in bella vista la sua folta chioma nera da afro-americana.

In fondo sì, si può fare, si può viaggiare in questo strano e martoriato paese diviso e segnato da conflitti religiosi, da bombe ed invasori sempre presenti nella sua storia, da Serse il grande a George W Bush. Paese incapace di preservare e far rivivere la sua pesante eredità storica e con tanta voglia di ritornare ad una normalità che la fitta presenza militare armata fa sembrare ancora così lontana.

Si può fare nonostante il parere contrario di viaggiaresicuri.it

Il bello dei posti come questo, dove il turismo praticamente non esiste è che riesci a vedere il loro vero volto, senza il belletto che di solito ci si mette per mostrarsi più attraente, senza i menu in 4 lingue che comprende la… PASTA BOLOGNIESE.      

Una risposta a “Baghdad ’23”

  1. “Cinesi anomali, donne poco d buono, sbianco” … il colore della tua scrittura è fantastico! Ridevo da solo e mi sono immaginato anzi ho vissuto il tuo viaggio come se l avessi fatto davvero accantona te !!! Top

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