Baku, 2024

9 giorni di ferie d’ufficio, la tua azienda ti dice che devi prenderle perché ne hai troppe dall’anno precedente. In realtà non sono neanche tante e di solito odio le ferie “obbligate” ma questa volta mi scatta subito in mente il pensiero dello scorso dicembre, quando l’dea di andare a farmi quattro passi per la città vecchia di Baku era stata sorpassata al fotofinish dalla new entry Baghdad. Ma Baku era rimasta lì, un retro pensiero che non andava via per cui accetto volentieri la proposta obbligata delle ferie e apro subito la cartina, sezione Caucaso. 

Per Baku ci vuole il visto ma si fa on-line in 2 o 3 giorni lavorativi ad un accettabile costo di 25 euro.  Mi arriva il giorno prima di partire. Per quanto riguarda il biglietto non ne parlerò per non suscitare le motivate invidie dei lettori che non lavorano per compagnie aeree come me. 

Lascio giorni ininterrotti di pioggia e previsioni altrettanto funeste per i prossimi e mi imbarco. E’ sempre strano, per uno che fa il lavoro che faccio io, vedere chiudere la porta dell’aereo dall’interno e non dall’esterno. Con tutto il mondo e le attività che di solito, alla partenza, chiudi …dentro.. e non ci pensi più. 

Il volo è pieno, ho un finestrino e penso di dormire ma la coppia seduta accanto non la pensa allo stesso modo e chiacchieriamo piacevolmente tutta la notte. Sono romeni 40enni, in Italia da 20 anni e, se non me l’avessero detto loro non l’avrei certo capito io visto che parlano italiano con accento emiliano. 

Dopo 5h di volo, romano e romeni scevri dal senso lombardo di discrezione, sanno vita morte e miracoli l’uno degli altri, facciamo colazione insieme in aeroporto e poi ognuno per la propria porta di imbarco, loro vanno a Hong Kong per una fiera. Peccato che, nonostante il loro volo di prosecuzione sia notevolmente più lungo del mio, arriviamo a destinazione più o meno allo stesso orario perché il mio, un 737-max ha un inaspettato problema tecnico in pista prima del decollo che il lavoro dei tecnici sopraggiunti non riesce a risolvere per cui si torna nel terminal e si attende il cambio macchina. Meno male che siamo nell’hub della compagnia per cui c’è sempre un aereo ed un equipaggio “in panchina”.

Sorvoliamo un po’ di Golfo Persico, un po’ di Iran ed un po’ di Mar Caspio e dopo 2 ore e mezza arriviamo a Baku al tramonto. Ci parcheggiamo accanto ad una vecchia conoscenza che non vedevo da anni: un aereo Aeroflot, bandito in Europa ormai da tempo.

Gli occidentali pensavano di fargli rimettere gli aerei negli hangar ma scoprirò che anche a Baku, così come negli altri paesi asiatici che ho visitato di recente, il turismo russo è quello di gran lunga predominante. L’Aeroflot ha solo riordinato la mappa delle rotte.

E’ l’ora del tramonto, l’aeroporto è molto bello e non c’è una nuvola (finalmente). Esco con calma e faccio il solito giro, ufficio informazioni (come mi mancano gli aeroporti piccoli con l’ufficio informazioni turistiche all’uscita), banchetto dove compro la SIM card locale e sportello bancomat per prendere un po’ di Manat, la valuta locale si chiama così.

All’esterno c’è la macchinetta dove mi faccio la BakiKart, tessera ricaricabile indispensabile per usare il trasporto pubblico in città. Gli inserisco 10 Manat (6eur), 2 per la carta e 8 come credito che mi basterà fino alla fine in una città in cui 1 corsa (lunga o corta che sia) costa 0,30AZN e il tragitto città-aeroporto 1,30.  

L’Airport Express mi porta in piazza della stazione, rinominata 28Mai, data della fondazione della repubblica azera in quel giorno del 1918 (per l’indipendenza vera e propria dovremo aspettare la dissoluzione dell’URSS nel 1991). Da lì prendo la metro che mi porta nella città vecchia dove il giorno prima ho prenotato 3 notti al Maajid hotel. 

Le stazioni delle metro dei paesi ex-sovietici sono sempre uno spettacolo. Tu entri, vai a prendere le scale mobili e ti trovi davanti a questo tunnel quasi verticale che non finisce mai, gremito di gente inconsapevole di star quasi precipitando verso il centro della terra. Sono comunque sempre funzionali e le stazioni sono belle, sempre impreziosite da opere d’arte come affreschi o mosaici. Le amo. Credo che se gli inglesi possono vantare le ferrovie come loro principale lascito coloniale, i russi possono certamente andare orgogliosi della rete metropolitana lasciata nelle città del loro vecchio impero. 

Scendo ad Içeri Seher, appena fuori dalle mura della città vecchia e mi faccio guidare dal mio amico G, nella sua versione Cicerone, verso l’alberghetto dove mi danno una stanza piccola ma carina e dotata di tutti i comfort, come si dice in questi casi. Unica cosa stonata è la temperatura luciferina della stanza, non regolabile dall’interno. Mollo tutto ed esco subito, ho la frenesia di andare a vedere, di attraversare la città vecchia ed arrivare sul lungomare per mettere un dito nel Mar Caspio per la prima volta in vita mia. 

Baku è un esplosione di luci. Dal lungomare vedi svettare su una collinetta i tre edifici chiamati Flame Towers, 3 grattacieli a forma di fiamma su cui sono montati una serie di led che al buio si illuminano mostrando in successione 

  1. La bandiera nazionale che sventola
  2. 3 figure umane (una per edificio) che sventolano la stessa bandiera
  3. Una fiamma che brucia

Le spettacolo devo dire, è notevole e ti cattura lo sguardo per un po’. 

Cammino sul lungomare che è fatto molto bene, molto ampio, molto lungo e con pavimento di marmo. Ci sono locali che vi si affacciano e da cui fuoriescono musiche mai sentite, fino a che…. fino a che.. ne sento una che riconosco: sul lungomare di Baku, una sera d’inverno c’è qualcuno che mi racconta che “il mondo dietro i vetri sembra un film senza sonoro” e mi strappa un gran sorriso. Il buon vecchio Adriano nel Caucaso non tramonta mai.

E così, “solo, col tempo che si è fermato”, me la ascolto tutta e poi procedo nella zona dello struscio, piena di gente, di vita e di locali illuminati ed affollati come dalle nostre parti vediamo solo nei fine settimana ormai. Mi fermo a farmi un panino ed una birra e guardare il viavai. Noto che, sarà pure un paese nominalmente musulmano, ma in giro ci sono molte più minigonne (nonostante il freddo) che teste velate. 

Torno in albergo a tastoni, un po’ per il sonno derivante dalla notte insonne, un po’ perché mi è morto il telefono ed il G-Cicerone non può aiutarmi. Le insegne e i palazzi visti all’andata mi fanno da sassolini di pollicino ed arrivo in albergo abbastanza spedito.  E crollo.

La mattina dopo, consumata l’abbondante colazione inclusa nei 27 euro che pago a notte, costeggio le belle mura ben preservate della città vecchia e mi dirigo verso il palazzo Shirvanshah, uno dei 3 o 4 monumenti di età medievale conservati e ben restaurati della città.  Prima dell’ingresso, accanto ad un minibus di quelli da 15 o 20 posti, mi attacca bottone Farid chiedendomi se voglio fare un giro a vedere 5 attrazioni nei dintorni della città con un gruppo già organizzato che sta per partire.  Gli dico che sto andando a vedere il palazzo, magari un’altra volta, mi dice “think about it”.  In effetti ci penso mentre sto andando al palazzo, in fondo se ci vado domani non mi cambia nulla, questo parte ora, ci saranno cose interessanti da vedere anche fuori città. Torno indietro, il bus è ancora lì. “Coming with us?” Yes. Farid ha la faccia rossa ed ha un fiato che puzza di alcool ma è simpatico e non guida lui, contratto un po’ sul prezzo, molto modico, e mi aggrego.  Starò fuori tutto il giorno insieme ad altre 8 persone, 7 russi ed un americano. 

Travis (l’americano) è un 40enne del Wisconsin. Ha lavorato per 14 mesi in una base scientifica americana in Antartide e, sarà per il lungo isolamento passato, al ritorno ha deciso di andare a vedere un po’ il mondo e sono 6 mesi che è in giro per l’Asia. E’ simpatico e facciamo subito amicizia. 

Farid, fa da guida all’interno del bus, spiegando le cose prima in russo e poi in inglese, pur dilungandosi di più nelle spiegazioni in russo, lingua che padroneggia molto meglio. Fa parte della gita anche sua moglie Jaila che ci farà da guida in lingua inglese a me ed a Travis durante la prima escursione, quella ai petroglifi del Gobustan, un area 60km a sud-ovest di Baku dove ci sono le incisioni rupestri lasciate dagli abitanti della zona in un lasso di tempo che va dal neolitico fino all’età del ferro. Per chi, come me, non ha tanta idea dell’epoca di cui stiamo parlando, basterà sapere che parliamo di 10000 anni prima di Cristo, mille anni più, mille anni meno.  Le incisioni sono quelle dettate dalla poca fantasia o pochi mezzi e fonti di ispirazione del periodo: uomini e animali, danze rituali, scene di caccia, il sole e le stelle. 

C’è anche un’incisione che raffigura una sorta di imbarcazione. Jaila ci dice che tanti anni fa il Mar Caspio ed il Mar Nero erano collegati e quella terra era mare che si alzava ed abbassava con cadenze regolari, finché non è scomparso del tutto lasciando un enorme lago salato che è il Mar Caspio. 

Avvicinandoci al sito dei petroglifi, Farid ci aveva indicato una specie di fortezza dicendoci che era un carcere, uno che ospita solo i “fine pena mai”. Una volta entrati lì buttano la chiave e ci resti fino alla morte dopo della quale vieni sepolto lì fuori senza un nome, una croce, una mezzaluna o una lapide qualunque, in una sorta di damnatio memoriae. Travis ha poi chiesto a Jaila di quali pesanti crimini si fossero macchiati colori i quali erano lì dentro. La risposta è stata “no, nessun crimine, sono oppositori politici”. Ah…. Ok..  

Proseguiamo il giro dividendoci in gruppi di 3 o 4 su vecchie Lada per affrontare la strada sterrata che ci porta sul vulcano, che altro non è che una landa desolata su cui ci sono, sparsi in giro, dei monticelli di fango che eruttano, o per meglio dire sputacchiano fango dopo aver gonfiato grosse bolle, facendo bbluppp bluup ogni pochi secondi determinando colate laviche (o fanghiche). Il tutto a freddo, contrariamente alle mie aspettative.

Ripassiamo da Baku, lasciamo Farid che va a lavorare al ristorante, credo più come accalappia-clienti che come cameriere, ci fermiamo per mangiare da Khalifa e proseguiamo per Yanar Dag, una collina a nord-est della città da una cui fenditura lunga 10 metri fuoriesce un fuoco perenne che neanche le piogge o i forti venti riescono mai a spegnere. Anche questo, come le bolle blup dei vulcani, è originato dalla fuoriuscita di gas dal sottosuolo. A quante pare anche Marco Polo ne parlava di questi fuochi che ardevano qua e là in questa terra di Zoroastriani adoratori del fuoco, religione predominante fino all’avvento dell’Islam.  I fuochi si erano tutti spenti nel corso dei secoli e leggenda vuole che a Yanar Dag riprese senza spegnersi più a causa di una sigaretta lasciata inavvertitamente cadere da un pastore negli anni ‘50.

Ultima tappa di questa lunga giornata è il tempio di Ateshgah, luogo di culto indù, sikh e zoroastriano con un tempio al centro dove brucia una fiamma perenne, alimentata in questo caso artificialmente. Il tempio è pieno di turisti indiani che fanno un gran casino. Nel frattempo ci facciamo una lunga chiacchierata con Jaila che, pur se spigliata e molto emancipata, è pervasa da una visione del mondo così patriarcale e machista da farmi apparire Borat (che in fondo non veniva da molto distante) come un attivista LGBT. Sarà che sono condizionato dai recenti trend occidentali ma ascoltarla parlare del ruolo della donna in Azerbaijan mi riportava indietro di 100 anni. O anche meno pensando alla Cortellesi in “C’è ancora domani”. E comunque non si lamentava affatto, anzi..

Travis da Khalifa

Torniamo in città, mi congedo dai compagni di gita, mi do una sciacquata e sono pronto a reimmergermi nella brulicante vita della capitale del venerdì sera. In piazza della fontana, sopra un palco scintillante allestito per l’occasione c’è uno spettacolo musicale con tanti cantanti che devono essere famosi da queste parti a giudicare dall’accoglienza del pubblico. 

Prima di andarmene a dormire mi faccio un giro sul lungomare (il Bulvar) finendo la passeggiata in un centro commerciale costruito sulla falsariga dell’Opera House di Sydney con i gusci a sezione sferica che in questo caso fanno un giro completo ospitando al loro centro quello che credo potrebbe rappresentare un fiore nascente.

Al suo interno, un centro commerciale uguale in tutto e per tutto a quelli occidentali, anche i negozi sono gli stessi, e all’ultimo piano il classico cinema multisala. Mi prendo un caffè e scrivo due righe che danno la struttura a questo racconto.

La mattina successiva prendo la funicolare che mi porta in alto sulla collina dove poggia la base delle Flame Towers da dove si gode una spettacolare vista sulla baia di Baku. Ci sono anche viali alberati con infinite lapidi commemorative dei martiri azeri uccisi dai russi o dagli armeni a seconda del periodo storico a cui fanno riferimento.

Quando cessò di esistere l’Unione Sovietica, alcuni dei neonati stati nazionali cominciarono a reclamare territori che affermavano storicamente appartenere a loro mentre i dirimpettai affermavano il contrario. Ognuno produceva documenti per provare le loro ragioni ma alla fine, una volta esauriti i tentativi diplomatici si finiva spesso a continuare la politica con altri mezzi: fucili e cannoni. E’ il caso del Nagorno Karabakh dove gli armeni avevano avuto la meglio nella guerra del ’94 ma che in anni recenti è stato riconquistato quasi interamente dall’Azerbaijan. Il tutto con il consueto spreco di giovanissime vite umane, le migliaia di sfollati, di profughi e disperazione. 

Leggendo a Baku tutte le informazioni sulla vicenda non posso fare a meno di pensare di quando visitai l’Armenia e ascoltai una narrazione del tutto opposta. Anche in questo caso, decidere chi abbia ragione è impossibile e l’unica ragione penso ce l’abbia John Lennon quando cantava 

Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion, too

Me ne torno in città tramite scalini, incrociando tanti atleti che fanno la strada in senso opposto (quella che io mi son fatto in funicolare), sudati ed ansimanti. Fanno fatica, li capisco, il numero di scalini supera di un bel po’ quelli del museo di Philadelphia che faceva Rocky. 

Vado a farmi la visita abortita ieri prima di iniziare, quella al palazzo della dinasta Shirvanshah. Nei paraggi ritrovo Farid stavolta nella sua veste di accalappia-clienti per il ristorante. E in effetti la prima cosa che mi dice è Hei italiano, mangiare, are you hungry? È sempre paonazzo ed il fiato sa di vodka ma a questo punto, vista la sua lucidità, comincio a pensare siano il suo odore e colore naturali. Forse nelle vene facciali gli circola il sangue, mentre nel resto del corpo la vodka. Potrebbe essere una spiegazione.

Gli Shirvanshah erano i sovrani della zona nel XV secolo ed il palazzo dove abitavano è il monumento più imponente e meglio conservato della città vecchia. Al suo interno c’è la sala dove si riuniva la corte, una moschea con minareto, un mausoleo, i resti delle terme ed altre cose degne di interesse. 

Da lì proseguo il tour della città vecchia visitando l’altro monumento iconico di Baku, la torre vergine o la torre della vergine.

Il termine inglese Maiden Tower lascia spazio ad entrambe le interpretazioni ed infatti tutte le descrizioni ti dicono sinceramente che, benché il nome sia stato tramandato così nei secoli, non si sa bene a cosa faccia riferimento, se ad una torre mai espugnata o ad una vergine rinchiusa lì a vita per uso e consumo del regnante che andava a farle visita ogni tanto. Il che mi fa pensare che dopo la prima visita avrebbe anche potuto cambiare il nome alla torre, ma magari sono malizioso io.. 

La torre si sale in strette e basse scale fino al settimo piano dove c’è il tetto/terrazzo con panorama sulla città vecchia. Ad ognuno dei 6 piani precedenti, piccoli perché le mura spesse 5 metri non lasciano molto posto all’interno, insieme a qualche oggetto esposto c’è un esecutore del lavoro che non farei mai e poi mai nella vita: il piantone, quello che deve passare 8 ore in una stanza senza finestre solo per assicurarsi che chi passa di lì non faccia danni. Che pena che mi fanno ogni volta che li vedo. Uguali in tutto il mondo, la stessa faccia triste ed annoiata, ti sembra di sentire il conto alla rovescia che devono avere nel cervello puntato verso l’orario di chiusura. 3 ore, 7 minuti e 43 secondi all’alba, 3h 7’ e 42”, 3 ore……..     

Faccio un salto al museo nazionale di storia dove all’ingresso, grazie a traduzioni improvvisate di passanti, capisco che sì il museo è aperto ma la sezione storica è chiusa (….) Rimango un po’ perplesso e decido di non entrare. Penso sia un po’ come andare allo stadio e ti dicono che puoi comprare il biglietto ed entrare ma…. oggi non si gioca. 

La sera mi rivedo con Travis. Vado con lui a riprendere la funicolare.

Lui lassù non c’è ancora stato ed io voglio vedere il panorama di sera con tutte le luci della baia accese ed è in effetti un bello spettacolo. 

Si è fatta ora di cena e ci dirigiamo da Firuze, un ristorante in piano interrato a Piazza della Fontana, il centro della vita serale di Baku. La traduzione inglese è Fountain Square, a me verrebbe da chiamarla Piazza Fontana se non mi evocasse storie brutte. Il locale è molto bello con tappeti e tovaglie appesi ai muri di grandi mattoni a vista e affreschi ai soffitti. Ci mangiamo una zuppa ed un Pilaf classico. Io lo accompagno con una birra alla spina, Travis con un gin and tonic. Gli dico che ha una strano modo di accompagnare il cibo, ieri a pranzo pasteggiava con un caffè, oggi con un gin and tonic, ride dicendo “I know..” Penso a chissà quali schifezze si mangiava e a quanto beveva nel lungo soggiorno in Antartide. Immagino che in quei posti, solo la base italiana porrà un’attenzione speciale al cibo, le altre andranno di surgelati (basta metterli fuori dalla porta) e microonde. 

La mattina dopo, fatta l’ultima colazione in albergo, faccio il check-out, lascio in custodia lo zaino e mi dirigo verso Piazza 28 Mai, e visito la bella stazione dei treni dove il tabellone con gli orari delle partenze (una ogni ora) indica sempre la stessa destinazione, una città nel nord di cui non ricordo il nome. In realtà scopro che c’è anche un treno notturno che in 12h ti porta a Tbilisi. Comunque la stazione è molto bella e fin troppo dimensionata per il servizio che offre. 

Da lì, dopo una sosta allo Yashil Bazar, il mercato verde, dove faccio scorta di pistacchi, peperoncino, zafferano e di una specie di noce dal guscio chiaro e dal gheriglio al sapor di cioccolato (le barriere linguistiche non mi hanno permesso di sapere di più sull’origine di siffatta stranezza ma ne ho comunque comprate un po’). Dopo questa sosta dicevo, mi dirigo al posto dove passerò buona parte del mio ultimo giorno azero: il centro culturale Heydar Aliyev, dal nome del padre fondatore dell’Azerbaijan moderno. O il dittatore che, già generale del KGB, ha mantenuto il potere dopo la dissoluzione dell’impero e ha fatto dello stato una sorta di dominio personale. A seconda dei punti di vista.

Visto che al potere dal giorno della sua morte c’è ora il figlio che ha appena vinto le elezioni per godere di un quinto mandato consecutivo, io opterei più per la seconda ipotesi, ma in ogni caso qui il signor Heydar è venerato come un Dio e tante strade piazze ed edifici sono a lui dedicati. Da una parte saranno i soldi del petrolio e del gas a fare la magia, dall’altra la paura di finire in quella galera col cimitero senza nomi vicino ai petroglifi di cui mi parlava Fidar.

Certo che Baku sarà anche un posto molto sicuro in cui viaggiare ma le tante telecamere a circuito chiuso che vedi in centro così come la presenza della polizia in ogni angolo può far anche sentire tranquillo un turista che ci passa qualche giorno ma se dovessi viverci mi sentirei un po’ troppo.. come dire.. sorvegliato? Oppresso?

Va anche detto che il signor presidente Haliyev figlio, nel 2009 ha cambiato la costituzione per potersi far rieleggere all’infinito e ha anticipato la data delle elezioni dal 2025 al 2024 per poter sfruttare a fini elettorali il consenso derivante dalle recenti conquiste territoriali in Nagorno Karabakh. Come dire.. fa quello che cacchio gli pare.  

Ma torniamo a noi, al centro culturale.  E’ bellissimo. Progettato dalla archistar anglo-irachena Zaha Haddid, è stato inaugurato nel 2012 ed è un classico esempio di quella che si chiama architettura fluida del XXI secolo.

Non ha una linea retta, non una colonna, è tutto curve e onde, in netto contrasto con il vecchio modernismo sovietico di cui Baku si è ormai quasi completamente sbarazzata. Resto fuori un sacco di tempo ad ammirarlo da tutte le angolazioni possibili, poi entro.

All’interno del centro, bellissimo anche da dentro, 2 o 3 auditorium e tante sezioni espositive: c’è quella dedicata alla storia del tappeto, quella degli strumenti musicali, una zona con plastici dei maggiori palazzi/edifici/monumenti di Baku e la sezione audiovisiva che racconta la storia dell’Azerbaijan dove recupero un po’ di quello che ho perso al museo di storia. Peccato che sia più che altro una gigantesca agiografia di Haliyev padre che qui scopro essere originario del Nakhchivan, una regione dell’Azerbaijan senza continuità territoriale col resto del paese, una sorta di exclave raggiungibile via terra solo passando, con un giro largo attraverso l’Iran visto che i confini con l’Armenia sono saldamente sigillati.     

Nel piano interrato c’è un’esposizione chiamata Classic Cars. Ci sono in esposizione una cinquantina di auto che hanno fatto la storia, dalla prima Benz del 1886 alle sue varie evoluzioni fino a… forse gli anni 60.

E’ bella da vedere, ci sono auto viste nei film di Al Capone e Bugsy, c’è anche un po’ di Italia, rappresentata nella Balilla e nella 500, descritta come forse la prima city car al mondo, nonché le copie russe della 600 e della 124.

Esco soddisfatto, mi faccio altri due giri in città, mi fermo a mangiare qualcosa, riscendo versi gli inferi per andare a prendere la metro e recuperare lo zaino e sono pronto per l’airport express.

In aeroporto davanti ai banchi di check-in vedo Antonio, collega di Cipro con cui ho lavorato insieme a Madrid poco più di un anno fa. E’ stato mandato qui in supporto di uno scalo che evidentemente non ha personale a sufficienza. Sfoggio più o meno tutto il greco che so e gli faccio “Antoniooo, ti canis edò?” (che ci fai qui). Lui si volta e mi fa la stessa domanda, ci abbracciamo entrambi sopresi di vedere l’altro dove mai avremmo pensato di vederlo, in questo strano pezzo di Turchia sul mar Caspio, dove della Turchia parlano la lingua (quasi identica), dei turchi riportano i tratti somatici e si sentono molto fratelli, specialmente visto l’aiuto militare dato da questa sorta di fratello maggiore durante i recenti avvenimenti.

Addio Baku, è stato un piacere.