Chiamiamolo così, in fondo andiamo a vedere due città sante, quella dei Sikh (Amritsar) e quella degli induisti (Varanasi, o Benares, o Kashi, come la si voglia chiamare) ma non ci andiamo in ginocchio o a capo chino, ci andiamo con gli occhi spalancati e tanto rispetto.
Si parte di sera con Doha come tappa intermedia. La Qatar non può attraversare lo spazio aereo dell’Arabia Saudita per cui si passa più a nord, sorvolando città una volta insorvolabili come Mosul, Kirkuk, Baghdad, dimostrandoci come la geopolitica con gli anni si trasforma, cambia la direzione dei missili terra-aria e le rotte degli aerei commerciali.
AMRITSAR
Arriviamo ad Amritsar alle 1330 e siamo 4 ore e ½ più avanti rispetto all’origine del viaggio; si, i fusi non si dividono necessariamente per ore esatte, in Nepal sono addirittura 4h e ¾ avanti (!?)
Quando la Qatar Airways qualche anno fa annunciò l’apertura della rotta su Amritsar le mie prime considerazioni furono 2:
a. Dove cacchio sta Amritsar?
b. Ma chi vuoi che ci vada?
Per la domanda a), google chiarì subito i miei dubbi dicendomi che è la capitale del Punjab e città santa dei Sikh, ha più di un milione di abitanti ed è a 400km a nord ovest di Delhi. E per quanto riguarda la domanda b), fui subito smentito quando già con il primo volo imbarcammo una cinquantina di passeggeri turbantati che finalmente avevano un volo che li portasse a casa
senza dover fare 3 scali. Mi sono così reso conto che in Italia c’è una consistente immigrazione formata da Sikh, dislocati soprattutto nelle zone lungo il Po tra Lombardia ed Emilia Romagna mantenendo vive le tante fattorie che ci sono da quelle parti. Stessa cosa dicasi per l’Agro Pontino.
E insomma vedendo tutti questi passeggeri partire giorno dopo giorno m’è venuta voglia di vedere dove cacchio vanno. E ne è valsa assolutamente la pena.
Arrivati in centro città, come al solito assoldiamo il ragazzo proponi-albergo che ci sembra più affidabile, ne giriamo con lui un paio e scegliamo il secondo, il Sant Home Stay (make yourself at home) che dopo piccola contrattazione ci dà una bella stanza con bagno, al riparo dalla confusione esterna per 1000 rupie (13eur). Ci si sistema, ci si cambia, ci si lava e si esce. E tutto ad Amritsar ti porta al Tempio d’Oro, il centro del centro del Sikhismo.
Come si entra nel tempio? Avvicinandoci ci sono venditori di foulards per coprire la testa (ok si va a capo coperto). Fuori dall’ingresso ci sono, ad ogni lato, rastrelliere per scarpe e calze ben guardate da zelanti volontari che in cambio delle tue calzature ti danno un bel gettone, e si va all’interno di questo quadrilatero con grandi pavimenti lisci di marmo che circondano una piscina quadrata di 150m ca di lato al cui centro c’è il tempio vero e proprio, una struttura a due piani di 10mx10m di base, lastricata da 400kg d’oro e al cui interno è custodito l’originale sacro libro dei Sikh che viene letto e cantato in continuazione dal religioso di turno e la cui eco riempie tramite altoparlanti tutto il complesso del tempio, permettendo ai devoti, soprattutto a quelli in coda sulla passerella che congiunge il tempio col bordo piscina, di ripetere e rispondere alle varie invocazioni, cantate e no. Il tutto in Punjabi, la lingua del posto di cui noi non conosciamo neanche una parola ma non ci riusciva difficile ripetere i salmi con i colleghi di coda, in quanto come succede spesso, alle nenie in lingue sconosciute ci si trova assonanze con la tua e mi ritrovavo a ripetere incessantemente quasi all’unisono con chi mi circondava, lamenti del tipo “ilbenzinaiononcestaaaa” o “eccolocachevaaa” o cose simili.
Le costruzioni intorno al quadrilatero sono un misto tra architettura indù e dei Moghul musulmani e quello che accomuna torri e minareti è una sapiente disposizione delle luci che al tramonto si accendono regalando un’atmosfera magica quando si specchiano nel laghetto.
All’interno del quadrilatero c’è il
divieto assoluto di fotografare ma l’invasione dei selfie non c’è
esercito che la fermi, tanto meno quelle poche guardie in turbante e lancia che
girano intorno alla piscina e che, ormai rassegnati, applicano il divieto soltanto
a macchine fotografiche vere e proprie ed ad attrezzatura professionale.
Torneremo nel tempio altre volte nei giorni successivi, nonostante il supplizio
di andare a piedi nudi (si, non è proprio caldo l’inverno del Punjab, giusto
qualche grado in più che nelle nostre latitudini), sbucceremo anche piselli
accovacciati in tondo insieme a tanti volontari locali che sotto un enorme
portico ai margini del complesso del tempio si danno da fare per alimentare la
grande cucina sociale che dà un pasto caldo a chi non se lo può permettere
altrove, così come uno spazio per dormire(se non proprio un letto) nel dormitorio
al piano di sopra. E ammireremo l’organizzazione perfetta di questo esercito di
volontari che si prodigano di continuo con gran lena per permettere che il
pellegrinaggio di migliaia di persone che arrivano qui ogni giorno avvenga
senza intoppi. Dai pulitori/lucidatori del tempio, a chi cucina nei vari
settori (accanto a noi sbucciatori di piselli c’era il cerchio di chi pelava le
patate e accanto quello dei tagliatori di cipolla e così via), ai
guarda-scarpe, alle guardie fino ad arrivare al vecchietto in piroga che girava
per il laghetto a tirar su quello che ci cadeva dentro, soprattutto piccoli
aquiloni che, reciso il filo e il controllo del padrone, finivano la loro
corsa, sacrileghi ed impuniti nelle sacre acque.
Poco fuori dal tempio c’è il giardino-memoriale di Jialianwalla bagh dove nel
1919 gli inglesi misero fine ad una pacifica manifestazione di protesta
semplicemente sparando addosso ai manifestanti, ammassati in uno spazio
circondato da alte mura e senza nessuna via di fuga causando un numero di morti
che spazia dai 379 dei rapporti ufficiali ai 1000 e più di testimonianze
ufficiose.
Nel parco ci sono ancora delle costruzioni con i fori dei proiettili cerchiati di bianco e all’esterno la statua di Udham Singh, un sopravvissuto al massacro che 21 anni dopo si prese la sua vendetta uccidendo a Londra colui che era il governatore del Punjab all’epoca del fattaccio e che aveva appoggiato l’azione definendola “giusta”.
Udham Singh fu impiccato
a Londra subito dopo ma nella sua città natale è ovviamente un eroe nazionale e
un’altra statua che lo raffigura con la pistola fumante in mano, svetta al
centro della
rotonda davanti al Gandhi gate.
Altra attrazione turistica ad Amritsar è la “cerimonia di chiusura della frontiera”,
te la propongono proprio così, come “border closing ceremony”. Per
una 15ina di Euro tutto compreso, Uppal ci porta in macchina ad Attari che è la
cittadina distante 35km da Amritsar situata al confine con
il Pakistan, dove ogni sera verso il tramonto si svolge un vero e proprio show
militaresco simmetrico (nel senso che si svolge in simultanea dai due lati del
confine) preceduto da video inneggianti ai vari reparti dell’esercito (le forze
speciali su tutti) sparati a volume altissimo da maxischermi posizionati in vari
punti delle tribune in muratura costruite ad hoc ai due lati della strada che
porta al confine vero e proprio (un cancello) e che ospitano migliaia di persone
ogni sera. Prima e durante la cerimonia che poi consiste in pochi soldati che
marciano a distanza di
brevi intervalli di tempo verso il confine con sguardo truce e gambe che arrivano
ad una altezza superiore a quella della testa, un ufficiale alla base delle due
tribune, microfono in mano, arringa gli spettatori e li invita a urlare sempre
più forte per superare in decibel i vicini pakistani.
L’ufficiale urla nel microfono HINDUSTAN
e tutti dalle tribune ZINDABAD, HINDUSTAN!! – ZINDABAD!!, HINDUSTAN!! – ZINDABAD!!
che significa qualcosa del tipo Lunga vita all’India e si va avanti così con
tutto il repertorio degli slogan nazionalistici indiani con le grida che
sfociano in vero e proprio tripudio da tifo da stadio ogni volta che entra,
gambe al cielo, una nuova coppia di soldati che marcia minacciosa verso il
confine e
si ferma, mostrando metaforicamente i muscoli, davanti ai colleghi “col
loro stesso identico
umore ma la divisa di un altro colore”. Dopo un po’ si ammaina la
bandiera, il tutto finisce e si defluisce verso il vicino parcheggio dove centinaia
e centinaia di auto, moto e autobus attendono i gongolanti ed eccitati
spettatori, tanti dei quali con la bandiera indiana dipinta a bella posta sulla
guancia o sulla fronte.
Mah, finché i nazionalistici istinti bellicosi vengono sfogati in questo modo
più ludico che violento, lunga vita (ZINDABAD) alla “border closing ceremony”.
Ad Amritsar c’è anche un interessante Museo della Partition, dove viene ben descritto il percorso che portò alla divisione tra India e Pakistan dei domini britannici e le successive conseguenze.
La divisione venne sancita su base religiosa quando Sua Maestà levò le tende nel 1947 dando vita alla migrazione di massa più grande della storia con milioni di musulmani che andarono in quello che conosciamo oggi come Pakistan e altrettanti hindu che fecero il percorso opposto. Si calcola che la migrazione coinvolse ben 14 milioni di persone e diede vita a violenze e persecuzioni religiose che costò la vita a circa un milione di ex sudditi della corona.
L’enorme numero di
rifugiati causò una crisi di proporzioni enormi che ancora oggi è alla base
delle relazioni ruvide tra India e Pakistan.
VARANASI
La mattina dopo si parte di buon’ora, il buon Uppal ci accompagna all’aeroporto
e la Jet Airways ci porta a Delhi dove restiamo bloccati per più di qualche ora
in quanto il volo che ci dovrebbe portare a Varanasi è strapieno e noi restiamo
a terra. Anche il successivo del pomeriggio è in overbooking e non ci resta che
comprare un biglietto con Vistara (fly the new feeling), una joint venture tra
Singapore Airlines e Tata, che parte alle 1220. 100eur e passa la paura.
Arriviamo a destinazione 1 ora e ½ dopo, prendiamo un taxi a tariffa fissa (come si stanno occidentalizzando sti indiani) che per 10 euro si fa i 30km che ci separano dal centro città.
L’autista Pankaj ci spiega che la strada è più corta e più bella da quando il presidente Modi, da lui lodato come Dio in terra, ha fatto fare la nuova tangenziale, una delle tante Grandi Opere in corso in India.
Gli chiediamo consiglio
su un alberghetto in centro e lui contatta un suo amico che ci aspetta ai margini
del centro vero e proprio, limite massimo per i taxi e lo seguiamo infilandoci
nel flusso-marasma dipersonemucchemotobicirisciòapedalimotorisciòcaprecani
tutti che vengono da davanti e da dietro e ti sfiorano e si sfiorano e chissà
per quale legge fisica non si scontrano (quasi) mai e cammini attento a non scontrarti
e allo stesso tempo guardi questa meraviglia e allo stesso tempo stai attendo a
non pestare cacche delle mucchecaprecani, il tutto immerso nel sottofondo senza
fine dei clacson che tutti (tranne mucchecaprecani) suonano incessantemente,
come se non si potesse circolare senza farti sentire. Ho l’impressione che se
ti si rompesse il clacson in India ti sentiresti fortemente inibito dall’andare
in giro, un po’ come da noi circolare di notte senza fari..
Il ragazzetto ci porta al MKR hotel che non è niente di che ma è centrale ed ha
una stanza grande e spaziosa che dopo una breve trattativa diventa anche
conveniente. Non ci va di perdere tempo a cercare altre sistemazioni e la
prendiamo anche se sul banco della reception troneggiano due enormi svastiche (si lo so che in India
hanno un altro significato, lo so).
Usciamo subito per una passeggiata sul lungofiume (il lungogange) attraversando
i vari Ghat, le scalinate di pietra che dalla città scendono fino alla riva,
fino ad arrivare a quella che più o meno inconsciamente ci attrae di più,
quella delle cremazioni, dove ci sono diverse pire in attività e altre che
vengono preparate per accogliere nuovi corpi avvolti in stoffe e portati a
spalla su lettighe di bambù da cortei funebri che arrivano dalla città
ripetendo in coro …salmi(orazioni? Mantra?) bagnano il feretro con l’acqua
del sacro fiume e poi lo sistemano sulla pira prevista a cui si dà subito fuoco.
La legna in realtà viene posta anche al di sopra del corpo per cui non si vede
molto il corpo che brucia, e di cremazioni ne ho già viste in passato. Quello
che però mi colpisce sempre in questi frangenti è l’assenza di….strazio. Non siamo
abituati a vedere un ultimo saluto non accompagnato da lacrime, urla, pianti e
disperazione. A non considerare la morte come qualcosa
di ingiusto crudele e nemico, addirittura da parlarne il meno possibile e da gridargli
addosso e maledirla quando ci colpisce da vicino. Qui è diverso, è più
naturale, è una fase di passaggio tra uno stato e un altro, o.. una dimensione
ed un’altra? Un corpo ed un altro? Trasmigrazione
dell’anima in altro corpo? Metempsicosi? Non so, faccio sempre fatica a tenere
alta la concentrazione fino in fondo quando si parla di argomenti religiosi e
pseudo-religiosi ma questa cosa evidentemente li fa soffrire di meno e mi
sembra positivo.
Ci sono delle “categorie” di morti che non vengono inceneriti ma
rilasciati interi nelle acque del
Gange in quanto ritenuti già di per sé puri, e sono bambini, donne incinte, santoni
e morti a causa del morso di un cobra, non abbiamo ben capito perché il veleno
di un cobra renda puri, abbiamo chiesto ma la spiegazione era un po’ fumosa (ci
saranno dogmi anche qui).
I morti che necessitano di cremazione sono
comunque tanti visto che solo sul Malikarnika Ghat ci dicono che vengono
cremati più di 300 corpi al giorno.
Alle 18, nel Ghat vicino al nostro albergo c’è ogni sera una cerimonia chiamata
Ganga Aarti, adorazione del Gange, con un palco che dà sul fiume su cui si
esibiscono dei ragazzi vestiti con abiti color zafferano che eseguono un’elaborata
puja (rituale di offerta) che ha come componente essenziale il fuoco. Si inizia
con il soffio in una conchiglia, si prosegue con lo sventolio di bastoncini di
incenso in elaborati volteggi e poi si passa a grandi lampade di fuoco che
creano giochi di luce e forme nel cielo scuro. Il tutto è accompagnato da
canti, inni e campanelli. La cerimonia è partecipatissima, tantissimi
spettatori sulla scalinata e nelle barche sul fiume ma dura un’ora e per quanto
mi riguarda dopo un ¼ d’ora, sarà stato per l’incessante suono dei campanellini
ma l’avevo già iscritta di diritto nel registro delle noie mortali e
cominciando a guardare altrove registravo come anche qui (tutto il mondo
è paese) erano ben pochi gli spettatori che guardavano lo spettacolo
direttamente, senza il filtro dello schermo dell’immancabile smart-phone con cui
filmavano ogni minuto dello show che,se già dal vivo era palloso, figuriamoci
poi rivederlo in differita.
Il turismo a Varanasi è molto più consistente di quanto ci si possa aspettare
visto l’ambiente per stomaci forti. Accanto alla numerosa componente nazionale,
ci sono tanti orientali, soprattutto giapponesi,coreani e cinesi (o erano solo
giapponesi?), tanti europei sulla 60/70ina in viaggio organizzato e giovani
indipendenti del tipo hippy/dreadlocks e buchi in faccia.
Di italiani ne incontri numerosi. Comunque
in India non c’è Toto Cutugno che tenga, né Totti né Buffon; l’unica persona italiana
universalmente conosciuta e il solo nome che viene in mente a tutti
quando dici che sei italiano è Sonia Gandhi, nata Sonia Maino, la piemontese vedova
dell’ex primo ministro Rajiv Gandhi e tuttora membro eminente del parlamento
indiano.
La mattina dopo mi faccio a piedi, lentamente, tutto il lungo fiume cittadino
verso nord, attraversando tutti i Ghat fino al ponte enorme a due piani che
porta auto e treno (le prime sopra il secondo sotto) a Varanasi.
Allontanandomi dal centro c’è un’atmosfera diversa, più tranquilla e rilassata.
Panni stesi, ragazzi che giocano a cricket mentre i bambini più piccoli li
guardano incantati (“a Regazzi’, ma ‘nce vai a scola?” “Yes,
allò Misterrr” ) Uomini e donne che si lavano o fanno le abluzioni senza
nessuno
che li guardi o gli faccia le foto, nessun turista, un sacco di capre, alcune con
vecchie camicie addosso per essere riconoscibili dal padrone; atmosfere surreali
indiane, insomma.
Una vecchina sdentata mi vuole vendere
delle palline con i capelli. La prima cosa a cui mi fanno pensare sono quelle teste
rimpicciolite da qualche cattivissima tribù amazzonica, le chiedo cosa sono ma
il suo inglese non va al di là del prezzo a cui me le vuole vendere (pipty
rrupis), me ne mette una in mano, me la fa strofinare con l’altra e il profumo
è forte e neanche male. Le do pipty rupis e me ne metto una in tasca,
riservandomi di chiedere in seguito a qualcuno la natura della strana cosa.
Al ritorno vado a visitare il tempio d’oro (si, ce n’è uno anche qui) dedicato
a Shiva, il Vishwanath temple. Trovarlo non è facile, stretto com’è in un
dedalo di viuzze e vicoletti stretti stretti, poi capisci che devi seguire i
soldati e la lunga coda. Di soldati ce n’è in giro dappertutto intorno al
tempio, evidentemente si teme un attentato in un simbolo così importante della
religione induista, ma la sicurezza è presa molto sul serio in India, non solo
negli aeroporti. Già da lontano dall’ingresso del tempio si è sottoposti a
perquisizione e vanno lasciati, in un ordinatissimo
guardaroba per stranieri, tutti gli apparati elettronici inclusi ovviamente telefoni
e macchine fotografiche. E non solo, all’ingresso vero e proprio mi hanno
impedito l’entrata perché non mi ero tolto l’orologio. Il mio tentativo di
spiegare che non so se si potesse considerare un “electronic
device” il mio decathlon da 10 euro veniva bruscamente bocciato e sono dovuto
tornare indietro per infilarlo dentro le scarpe (ah già anche le scarpe sono
verboten ovviamente). E meno male che gli stranieri sono privilegiati e possono
saltare la chilometrica coda. Ti senti un po’ una merda a passare accanto ad
una pletora infinita di vecchiette che stanno lì in piedi per ore ma tant’è, le
regole locali non vanno discusse.
Una volta finalmente dentro vedo qual è l’oggetto di adorazione, la meta finale di quelle centinaia e centinaia di persone in coda con in mano l’offerta floreale che depositeranno sopra una pietra che spunta dal terreno, dopo essersi ammassati, spintonati, infilati in questa minuscola cappellina dov’è custodita questa pietra nera che poi sarebbe il Lingam che poi sarebbe il simbolo fallico di Shiva. Insomma c’è una coda infinita di gente di tutte le età che sta in attesa per ore per buttare qualche petalo sul PISELLO di Shiva !!!
Il tutto con un enorme
spiegamento di soldati tutt’intorno per permettere che questo accada senza
problemi. La torre e la cupola del tempio sono ricoperti da 800kg d’oro
(da lì il nome), regalo del Maharaja Singh di Lahore, al tempo in cui Benares e
Lahore appartenevano alla stessa nazione, più o meno. Perché poi un Maharaja
Sikh regali tutto questo oro per un tempio induista non lo capisco ma è una
delle tante cose che non capisco di questa nazione, ormai si sarà intuito..
Certo che però sono rimasto abbastanza sorpreso da quanto, a distanza ormai di
tanti anni dalla mia prima scioccante visita, l’India non mi fa più nessun
effetto, tutto mi sembra divertente e magico, non c’è più niente, né odori, né
animali, né l’impossibile affollamento, il casino, lo sporco, la miseria
accanto all’eccessivo misticismo, niente che mi impressioni negativamente,
niente più che mi faccia schifo. O meglio: diciamo che ci sto ancora
lavorando; un giorno camminavo per le strade sempre piene e davanti a me
camminava una coppia di occidentali giovani, con accanto un venditore che gli
proponeva qualcosa e dall’altro lato una bambinetta scalza, avrà avuto 7 anni
che li seguiva di lato passo passo, sguardo incuriosito in su verso di loro,
non smetteva di fissarli. Ad un certo punto l’ho vista scivolare, senza cadere
e guardando in basso ho visto una gran quantità di cacca con al centro la
striscia mancante, quella portata via dal piedino scalzo della poverina. Beh
sì, lì un aaarrgghh m’è uscito d’istinto. Poi però la sera lo racconto a
Giacomo e lui mi dice “meglio scalza che con le scarpe, almeno ti lavi il
piede e via, senza incrostazioni difficili da togliere nella suola”. Poi
Massimo mi dice che in fondo la merda di vacca è solo ..diversamente erba. Ed
in effetti, ripensandoci…. no?
Tardo pomeriggio mi
ritrovo con Giacomo in albergo e ce ne andiamo a fare un giro in barca nel
fiume per vedere la sponda cittadina al tramonto che si illumina piano piano di
luci colorate. La barca è di Shankar, anzi no. Così come non è suo il negozio
di seta e cachemire dove lo vediamo poco dopo a mostrare i prodotti, quello di
souvenir dove lo vediamo il giorno dopo..
insomma Shankar è uno dei tanti che sbarca il lunario quà e là con le commissioni,
ma lo fa bene, con molta padronanza del mestiere. Il giro in barca finisce
davanti alla cerimonia del Ganga Aarti che osservata dal basso del fiume..
sempre pallosa è (i campanellini, secondo me la cosa
insopportabile sono i campanellini..)
Di ritorno in albergo andiamo a comprare qualcosa al negozio di Vivek, che parla
discretamente italiano e con cui avevamo chiacchierato fuori dall’albergo la
sera prima. Approfitto del sarto del negozio e mi faccio fare un paio di
pantaloni di seta grezza su misura, li ritirerò il giorno dopo, prima di
partire. “Vivek, visto che parli italiano.. ma quelle palline con i
capelli…” mi dice che son fatte col fegato di cervo e servono a profumare
l’interno degli armadi, tengono lontane le tarme.. da quel che ho capito.
Giorni dopo, quando lo chiederò ad un pilota indiano della Qatar, vengo a
sapere che è una ghiandola del musk deer, il cervo muschiato. Una palla interna
vicino a quelle esterne. E profumata. Mi fermo qui con la disamina, non voglio sapere
altro. Comunque è lì, all’interno dell’armadio ed il profumo è buono.
Pensa se al ritorno mi avesse fermato la
finanza e avessi dovuto spiegare cos’era quella cosa..
Usciamo per andare a mangiare, sull’uscio incrociamo Shankar che entra nel “suo”
negozio con un paio di turisti. Cambiamo quartiere e ci addentriamo nei vicoli
sopra al Pandey Ghat, mangiamo in un posto dove il piatto del giorno è riso con
vari conrisateci (se c’è il companatico perché non il
conrisatico) per la bellezza di 1 euro scarso e me lo sbrano con gusto. Ce ne torniamo
in albergo mettendo la sveglia per farci un altro giro in barca alle prime luci
dell’alba ma la sveglia non serve. Prima che suoni ci pensa la mucca sotto casa
a muggire ad intervalli regolari, non capisco se è un
lamento o una specie di russare, ci sveglia a tutti e due e il giro in barca
inizia prima del previsto e sarà per il tempo fosco, sarà per le tante altre
barche in giro con turisti che un po’ guastano l’atmosfera, lo chiudiamo anche
prima del previsto (“oh, c’è Shankar, non facciamoci vedere che ci rimane
male che non siamo andati con lui”, ma ci vede eccome, non gli sfugge
niente a ‘st’omo).
Il resto della mattinata lo passo sul lungofiume verso sud, fino all’Assi Ghat.
Ritorno per zone interne e mi fermo in un negozio a comprare due cose. Seduti
in magazzino con Suresh, che parla un ottimo inglese, si crea un buon feeling.
Lui si apre e mi dice che la giornata è iniziata male perché ha litigato in
famiglia. Mi sento come se chiacchierassi con un amico longitudinalmente molto
più vicino a me. Mi dice che si fa un mazzo così per mandare avanti bottega e
la moglie casalinga passa il tempo davanti alla TV e non fa niente “questo
buco sono sei mesi che ce l’ho e non ha ancora trovato il tempo di
cucirmelo”, dei figli adolescenti e dello smartphone che è la loro rovina
e poi della plastica che lui non usa perché sta rovinando il mondo, dei clacson
che dovrebbero essere proibiti, insomma mi stupisce e mi piace il fatto che
senta di confidarsi così col primo venuto, senza smania di vendermi niente.
Alla fine qualcosa compro, contento di averlo conosciuto e ci congediamo con un
sincero abbraccio.
Albergo, doccia, ritiro i pantaloni e ci congediamo dal MRK hotel e dalle sue
svastiche. Tié. Prima di partire per l’aeroporto ci fermiamo a mangiare qualcosa.
Un autista di motorisciò ci aspetta fuori tutto il tempo perché vuole
assicurarci i suoi servigi. Lo congediamo perché preferiamo una
macchina ma c’è da aspettare, mi guardo intorno ed è ancora lì che ci tiene d’occhio,
non si sa mai, e alla fine premiamo tanta tenacia e andiamo con lui. E’
contentissimo, parte ridendo dicendo “I’m a lucky man todayyy”.
Il volo è in ritardo, ci tengono un po’ sulle spine ma alla fine si parte,
destinazione Delhi, per 36hr. Sul volo sto seduto accanto ad una bella donna
australiana e a suo figlio ventenne. Vanno a Nagpur per la seconda fase di un
corso che hanno cominciato l’anno scorso e la cui natura non ho capito bene ma
è qualcosa di mistico spirituale in cui credono molto. Mi chiede se ho fatto il
bagno nel Gange(…), mi dice che loro l’hanno fatto e la sensazione è che è
“extremely powerful” e un po’ mi dispiace di avere sempre addosso
questo scetticismo che ti fa perdere le occasioni extremely powerful, ma in
fondo se l’avessi fatto non credendoci l’unico pensiero che avrei avuto
facendolo sarebbe stato il calcolo del tempo e della distanza dalla doccia più
vicina e no, non era cosa.
DELHI
L’aeroporto di Delhi è
fantastico. Grandi spazi, pulito, efficiente, tutto sculture e manifesti
celebrativi sul fatto che sia stato votato N.1 in the world da non so quale
sondaggio di viaggiatori. E appena esci c’è l’entrata della metropolitana
che ti porta in centro!! Che differenza dalla mia prima visita di quasi 30anni
fa, quando aspettando i bagagli guardavi fuori e vedevi centinaia di facce
attaccate al vetro che aspettavano solo che uscissi per venderti il trasporto
verso la città, in 20 che strillavano più forte dell’altro, litigando fra loro,
infilandosi da sotto per apparirti ad un cm dalla faccia…
L’ingresso alla metro è soggetto, come no,
al passaggio del bagaglio sotto il metal detector, e alla perquisizione
fisica della tua persona con detector manuale, cosa che comincia un po’ ad esasperarmi.
Che poi penso.. che cazzata, lo fanno qui ma se uno viene da un’altra stazione
e
torna indietro.. che mica possono averci metal detector e perquisizione ad ogni
ingresso di ogni stazione della metro, no? E invece è proprio così.
Penso che ci sia un confine tra la sicurezza capillare e la paranoia, quello che
se lo oltrepassi non vivi più e preferisci startene dentro casa, con le sbarre
alle finestre. Qui no, ne siamo ancora lontani ma comincio ad intravederlo il
confine, capisco che esiste.
Arriviamo al quartiere di Paharganj, nonostante la confusione che ci provocano
le recenti ristrutturazioni urbanistiche (quando ti perdi, prendi un
motorisciò) e ci sistemiamo all’ Ajay hotel. Giacomo si sente appena un po’
meno a casa che quando torna in Sardegna e glielo si legge in faccia.
Ceniamo nel ristorante dell’albergo, ci facciamo una passeggiata per la Main Bazar
Road dribblando le offerte di passaggi in risciò e di sostanze più o meno
lecite e ce ne andiamo a letto. A proposito, non ho bevuto una goccia d’alcool
per tutto il viaggio. Ho cominciato ad Amritsar visto che, nelle vicinanze del
tempio si rispettano le regole integralistiche Sikh e non si può fumare e
neanche si vendono carne ed alcool. Ho preso la palla al balzo e mi sono
adeguato, perlomeno per quanto riguarda l’alcool; il primo bicchiere me lo farò
sul Doha-Roma.
Apriamo gli occhi con calma, senza mucche-sveglia da basso e uscendo ci rendiamo
conto che è il giorno della festa della Repubblica, celebrata con molta enfasi
da questo popolo pervaso dal nazionalismo più sentito. Negozi e mercati sono
quasi tutti chiusi. Almeno per la mattina. C’è la gran parata militare giù
all’India gate ma ormai è tardi, ce ne andiamo alla Jami Masjid, la moschea
principale di Delhi che è molto bella oltre ad essere un’oasi di pace. Ha un
gran cortile, 3 cupole e 2 minareti ma non ha praticamente interno. I 25000
fedeli che può contenere si prostrano nel
cortile e zone limitrofe. Potenza dei posti dove piove poco, anche se mi chiedo
come facciano durante la stagione dei monsoni. Su uno dei due alti minareti di
solito si può salire ma oggi è Republic’s day… Dalla moschea si vede il forte
rosso lì vicino e mi ci vado a fare un giro anche se so che sarà chiuso. Una
strada d’accesso è chiusa dalla polizia, l’altra ha la solita coda davanti al
metal detector dove fanno buttare addirittura gli auricolari del telefono e mi metto
a ridere quando la mia micidiale penna bic viene scoperta e neutralizzata nel
cestino accanto al poliziotto (“voi state a esagera’, ve lo dico, state a
esagera’” “what you say Sir?””niente niente, lascia perde”).
Arrivo nel viale che circonda
il forte rosso e vedo un’enorme massa di gente allineata ai margini
del viale in attesa. Al centro della strada, a distanze regolari, c’è un poliziotto
che si assicura che nessuno oltrepassi le transenne. Dunque, il Tour de France
quando inizia… no. Chiedo un po’ in giro e alla fine trovo un parlante
inglese che mi spiega che arriverà a breve la parata militare, quella che è ha
fatto la sfilata all’India gate poco prima e ora passa anche da lì anche se
senza gli enormi carri armati e lanciamissili esibiti poco prima nel vialone
più ampio. L’emozione dell’attesa è palpabile, poco dopo si sente la
musica ed ecco i soldati a cavallo, è la cavalleria che apre le danze seguita
dai vari reparti dell’esercito alcuni bellissimi a vedersi con i loro copricapi
colorati e tutti con una marzialità e un ordine(allineati
e coperti) sorprendente. Passa il battaglione Sikh, i
Rangers del Ladakh, le truppe cammellate. Il tempo è bello, la gente è contenta
i soldati entusiasti dell’accoglienza, insomma è una bella giornata, e lo senti
nell’aria. Passati i militari la parata continua. Uno dopo l’altro
sfilano quelli che a me ricordano tanto i carri del carnevale di Viareggio, uno
per ogni regione dell’India raffiguranti scene in relazione con la vita
di Gandhi.
Nel pomeriggio, dopo
aver tentato invano di andare al National Museum, che ovviamente è chiuso per
la festa nazionale, ritorno nello spiazzo all’esterno del forte e scopro che i
carri facevano parte della fiera Bharat Parv, un festival di 5 giorni
organizzato ogni anno dal ministero del turismo e in cui ogni regione ha i
propri padiglioni in cui esibisce e vende manufatti, cucina manicaretti tipici
e promuove il turismo. Mi fermo un po’ più a lungo nel padiglione del
Sikkim, regione indiana
incastrata tra Nepal e Bhutan che non conoscevo. Comincio a farci un
pensierino…
Prendo una cosa da mangiare dal padiglione del Tamil Nadu, non so esattamente cosa sia (patate e conpatatici) ma ha un bell’aspetto, è piccante al punto giusto e comincio ad aver fame.
Torno in albergo in metro, metal detector, 2 fermate verso nord, cambio, 3 verso sud, facile facile. Non mi piace tanto l’impersonalità della metro, ovunque essa sia. Lì sotto dentro magari ad un vagone costruito in Corea, potresti stare dappertutto. Certo la gente è diversa ma in fondo.. anche a Londra nelle tratte verso certi quartieri non è così diversa. Però fuori fa freddo e i risciò sono tutti aperti di lato. Mi ritrovo con Giacomo tutto soddisfatto delle mille opportunità fotografiche che è riuscito a cogliere in giornata, e ce ne andiamo a cena nel ristorante sul tetto lì vicino con sguardo sul quartiere sempre più pieno di luci al neon, raccontandoci la giornata.
Due ore di riposo e si riparte, direzione Indira Gandhi International Airport, direzione fine del viaggio, direzione casa. Stessa origine stessa destinazione ma su due aerei diversi, ognuno vola con la propria compagnia di appartenenza. Provo a dormire ma non ci riesco, troppe immagini dell’ultima settimana mi scorrono davanti agli occhi, alcune col tempo svaniranno ma altre resteranno per sempre e quando la memoria comincerà a far cilecca mi rileggerò il raccontino qui sopra per rinfrescarmela.
Alla prossima (Sikkim?)