MOZAMBICO MALAWI 2015

Quanti anni erano che dicevo che volevo andare in Mozambico? Tanti. Ma perché poi?

Mai pensato a niente di particolare, neanche al mare, a Maputo, a niente di preciso.

E’ quella che si chiama fissa, ti entra in testa e ci resta. Sarà stata la bandiera col Kalashnikov,  le volte che me lo vedevo lì vicino quando andavo in Sud Africa per lavoro, il racconto che ne fece Bettinelli quando ci passò in vespa,  la curiosità che mi suscita un paese dell’Africa nera e profonda che parla portoghese, fatto sta che era una fissa e me la sono tolta.

Certo il fatto che parlino portoghese è fantastico: comunichi, benché precariamente, con tutti; compro “Noticias” e lo capisco praticamente tutto, leggi e capisci gli annunci, le pubblicità, le didascalie, gli imbonitori, tutti. Un po’ per l’italiano, un po’ per lo spagnolo, un po’ per quel poco di portoghese conosciuto, che migliorava di giorno in giorno, alla fine ridendo e scherzando (alla lettera), parli con tutti.

Il viaggio parte da Maputo, dopo la mia prima volta su un 787 (che prenderemo anche al rientro da Addis Abeba a Malpensa). Fatto il visto in aeroporto, con tanto di impronte digitali e foto fatta sul posto. Il poliziotto dell’immigration ci chiede anche la prenotazione alberghiera e biglietto di uscita dal Mozambico e noi non abbiamo né l’una né l’altra, ma è una domanda pro forma perché senza neanche aspettare risposta ci restituisce i passaporti vistati, e ciao.

Taxi per il centro: la prima pensiâo a cui avevamo pensato la scartiamo perché troppo lontana dal centro, la seconda ha posto solo per una notte, la terza ce la facciamo consigliare dal tassista, è la Pensiâo da Baixa, bruttarella e in mezzo al casino dei venditori di strada che gravitano fuori dall’ordinato mercato municipal ma ci piace così e ci siamo stufati di girare, va bene questa.

Maputo è in una bella posizione, col mare che la bagna su due lati e belle Avenidas costeggiate di jacarandas e altri alberi similmente colorati. A parte ciò non ha niente di bello. Non ha nessuno punto di interesse, nessuna costruzione particolare o anche solo imponente (tranne quelle vetro e acciaio do Banco de Moçambique in costruzione).

La cosa che manca di più a Maputo però non sono i luoghi di interesse ma i cestini dei rifiuti: non ne trovi in giro e probabilmente non per questo (ma vai a capire se è nato prima l’uovo o la gallina) le strade sono piene di immondizia. Un vero schifo. Quando c’è il vento, in certe zone è tutto uno svolazzare delle onnipresenti buste di plastica e camminando le devi schivare. Un occhio in alto e uno in basso per evitare le buche (o voragini) non segnalate che se non stai attento ci finisci dentro e come dice Giacomo “lo sai come ti passa al volo la sbornia..”.

Una sera andiamo a vedere una kermesse musicale a Praça da independencia. Si, lì tra Avenida K.marx e Av. Ho Chi Minh. Vicino a Avenida Lenine e Av. Lumumba, no? Che cacchio, il Frelimo non avrà mica cacciato i portoghesi per poi farsi imporre i nomi delle vie dai capitalisti.. 

Vari gruppi provenienti da tutto il paese cantano e ballano e la gente con loro, tutti contenti ..e avvinazzati, di birra e superalcolici il che conferma il cliché già visto il altre città del terzo mondo dove il problema alcolismo è serio. A meno che non siano a maggioranza musulmana s’intende, dove quanto meno ti fai un po’ di problemi a farti vedere ubriaco per strada. 

Cominciamo ad orientarci nella grande città quando il tempo tiranno ci spinge a nord e ci addentriamo nel Mozambico rurale, direzione Inhanbane. Qui gli autobus partono sempre all’alba, questo verso Maxixe in teoria alle 5; in realtà, come sempre, quando si riempie.

Dopo qualche ora di viaggio e dopo aver attraversato villaggi dai nomi improbabili come Mandjakazi e Chissibuca, scendiamo a Maxixe e ci infiliamo in una barchetta stipatissima di passeggeri, visto che “o barco grande esta avariado”. Guardiamo tutte ste facce nere intorno a noi, sotto un telone basso che ci protegge dal sole e ci dà l’impressione di essere in viaggio verso Lampedusa

e invece, attraversata la baia, eccoci ad Inhambane, città tranquilla e rilassata e nella vicina bella e ampia spiaggia di Tofo,

piena di Mozambicani in gita domenicale e di giovani sudafricani che vengono a farsi una vacanzetta in un mare un po’ più caldo del loro.

Il giorno dopo si riparte, o barco grande sta ancora avariado per cui barchetta al contrario e chapa (minivan di fabbricazione cinese da 15-20 posti) fino a Vilanculos dove finiamo al baobab resort, bel posto con tanti bungalow o stanzette a un passo dalla spiaggia e dove per 1500 Meticals (30eur) ci affittiamo una stanzetta fronte mare che è uno spettacolo.

 Il Baobab è gestito da Marina, donna di Vigevano che, venuta qui 4 anni fa per vedere le isole di fronte, non se ne è più andata e ci incontriamo anche altri personaggi interessanti, per esempio Ricardo: padre mozambicano e madre tedesca, nato e cresciuto a Dresda (ex DDR) dove il padre era stato mandato a studiare in nome della fratellanza tra paesi socialisti. Ricardo a 25 anni decide, non so bene perché, di farsi 6 mesi nello sperduto villaggio del padre, accolto da parenti da cui non potrebbe essere più lontano e con cui si capisce più che altro a gesti. Passa la giornata dando da mangiare agli animali, facendo visite parenti e andando con coetanei al fiume, solo di giorno però ché la sera è pericoloso per via dei coccodrilli. Senza elettricità e senza connettività. Si era già fatto 3 mesi così prima di regalarsi un piccolo break a Vilanculos, dove l’effetto credo sia stato simile a quello vissuto dal padre che dalla capanna africana arrivava nella scintillante Europa (la luce fioca dell’Europa dell’est era comunque scintillante al confronto) ed era totalmente incantato. Partecipava a tutte le escursioni e si faceva 3000 autoscatti, le isole, il bird-watching, tutto. Stava sempre su internet aggiornandosi su quello che era successo al mondo e ai suoi amici durante tutto quel periodo. Era andato per stare 3 giorni ma quando eravamo andati via noi aveva già esteso ad una settimana, chissà se sta ancora là.

D’altronde il padre folgorato dalle luci non era mica più tornato indietro….     

Facciamo un’escursione di un giorno alle isole di fronte, le famose Bazaruto e Benguerra dove facciamo snorkeling, il bagno nell’acqua limpida, la passeggiata sulle dune.

Durante la grigliata di pesce preparata sulla spiaggia chiacchiero con una coppia di olandesi in pensione, figli grandi che vivono altrove; invece di passare il tempo giocando a carte al bar(lui) e spararsi 10h della versione olandese di B.D’Urso (lei), sono partiti con una Toyota 4X4 ad ottobre 2012 direzione Cape Town e ritorno. Traghetto da Palermo a Tunisi, hanno attraversato una Libia nel caos più totale, con il rais appena ucciso. Venivano fermati da posti di blocco ogni pochi km da non si sa bene quale milizia improvvisata. In sei giorni e infinita tensione l’hanno attraversata tutta dal confine con la Tunisia a quello con l’Egitto, poi tranquillamente verso sud. Viaggiavano da Ottobre ad Aprile di ogni anno, poi trovavano un posto sicuro dove parcheggiare l’auto e se ne ritornavano in Olanda a passare l’estate. Per poi ripartire a Ottobre (“we don’t like winters”). Erano già arrivati al Capo di buona speranza e stavano tornando indietro, quando e attraverso dove, “vedremo, non abbiamo fretta”. Ecco, se dovessi dire un modo come vorrei passare gli anni da pensionato, direi proprio così.  

Da Vilanculos ci organizziamo per raggiungere Beira, 580km più a nord. Il Chapa che fa servizio diretto non ha abbastanza adesioni e prolungherà la siesta. Noi ce ne andiamo in Apetta Piaggio (o meglio, la sua versione indiana o cinese) fino all’incrocio con la strada principale e aspettiamo lì i Machibombo (gli autobus grandi) partiti da Maputo in nottata e diretti a nord. Dopo 40min ne passa uno, va a Tete. Va bene, ci porti fino all’incrocio con Inchope e da lì troveremo qualcos’altro verso Beira. A metà strada si accosta con un altro bus che nel frattempo lo ha raggiunto. Gli autisti parlottano poi il nostro torna e ci dice che hanno deciso di fare una joint-venture (ok non ci ha detto proprio così…) e che i nostri passeggeri per Tete devono salire sull’altro mentre il nostro va a Beira (un po’ di culo ogni tanto va sempre bene).

A Beira stiamo una notte, il tempo di farci una passeggiata e vederci Mozambico-Gabao (Gabon), 1-0, qualificazioni mondiali 2018, nel posto dove ci mangiamo il solito frango grelhado (pollo alla griglia). Per gli amanti delle statistiche il Mozambico uscirà perdendo ai rigori la partita di ritorno.

La mattina dopo siamo in aeroporto, sperando di trovare due posti sull’aereo che ogni 2giorni va a Nampula e che ci permetterebbe di risparmiarci 16-18 ore di viaggio in pullman. Ce ne sono 3, bastano e avanzano.

Dall’aeroporto di Nampula, il tassista Abraham ci porta alla stazione: vogliamo prenotarci due posti sull’unico treno a lunga percorrenza del paese, quello che va a Cuamba, vicino al confine col Malawi. Delusione, il servizio funziona a singhiozzo ed è sfasato rispetto allo schedulato. Il prossimo parte 3 giorni dopo e non si sa quanto ci mette (trabalho sulla linha). Niente, ancora Machibombo. Ma prima si va a la ILHA!!!  Ilha de Mozambique è la vecchia capitale. Quando i portoghesi hanno raggiunto quest’isola lunga 3km e larga in media 500m, a soli 3-4 km dalla terraferma, hanno pensato fosse il posto ideale per farci la loro base. Ci hanno costruito il forte, belle casette basse e ci sono rimasti finché lo spostamento della capitale a sud ha tolto ogni importanza a Ilha che potenzialmente è bellissima (penso a tutte le case ridipinte color pastello)

ma che al momento giace in uno stato di semiabbandono ed è veramente un peccato. Però ci si mangia bene, ci si passeggia in santa pace, si gira in bicicletta (chissà perché della Royal Mail) e ci si sta tranquilli e rilassati. Visita al forte col piccolo Nuhi scelto come guida ufficiale dopo averlo sentito emettere uno stranissimo fischio a bocca aperta (!!??).

Si riparte alle 4, come al solito. Sosta di un giorno a Nampula, ne approfitto per farmi riparare il cellulare che non carica più e a girare la città. Mattina dopo alle 5 (..) si parte alla volta di Cuampa(città di merda), dove si arriva dopo 8h di viaggio su una strada per metà sterrata. Il viaggio è stato bello, costeggiando montagne che spuntavano improvvisamente dalla pianura, come enormi panettoni  .

Il nostro vicino di posto, Benedetto, manco a farlo apposta parlava italiano. Ha un fratello che vive a Trento ed era stato a trovarlo in occasione del suo matrimonio tanti anni fa e ci si era fermato qualche mese. Quasi arrivati a Cuamba abbiamo incrociato il personaggio più strano in assoluto del Mozambico. Camminava in direzione opposta al bus; era mezzogiorno e ci potevano essere 40 gradi. Lui avanzava tranquillo con un fagotto da vagabondo appeso ad un bastone, masticando un pezzo di legno. L’abbigliamento era composto da: casco integrale (senza visiera), pastrano pesante luridissimo e bisunto, a cui erano appesi tutti pezzi di non so cosa e ai piedi aveva due stivali di gomma (??).

La Pensiâo S.Miguel è una specie di motel, è vicinissima alla fermata dell’autobus e siamo troppo stanchi per cercarcene un’altra, ma fa veramente schifo. La stanza è piccola, con un inutile divano da cui ogni tanto spunta uno scarafaggio, l’aria condizionata che perde (plik plik plik) e bagna il pavimento. Il pavimento del bagno è costantemente allagato, la doccia ha un tubo pendente e dei fili elettrici scoperti che arrivano direttamente al soffione della doccia e che mi ha dato anche la scossa (fortunatamente a bassa tensione) quando ho alzato le mani per farmi lo shampoo . C’è un cane che ci dorme fuori dalla porta; il cortile, polveroso e pieno di macerie ha cani dappertutto e ce n’è una con i piccoli, particolarmente aggressiva che abbaia sempre e che si avvicina minacciosamente finché non viene ricacciata indietro dai vari lavoranti del cortile che le strillano “SUCA”!! che immagino sia CUCCIA! in Chichewa, la lingua locale. Il pomeriggio mi lavo delle cose, le appendo in cortile fra un “suca!” e l’altro.  La zanzariera ha diversi buchi ma fa il suo dovere e ci facciamo una bella dormita.

Siamo venuti qui per poi dirigerci al confine Interlagos-Nayuch ma quando andiamo nei dettagli, che in Italia come in mezzo alla giungla, si traduce ormai in aprire google maps, la strada che porta lì non c’è. Chiedendo però ci confermano che è percorribile per cui, dopo la solita sveglia col sole alle 4.30 che ormai è diventata più che naturale, e col sollievo di lasciare quel posto fetido, andiamo al punto di partenza dei chapas, aspettiamo un’oretta che si riempia e partiamo per Macanhelas, l’unico modo di avvicinarci. Parlando con una compagna di viaggio che allatta (ho sempre una vicina in autobus che allatta) mi dice che da Mecanhelas sicuramente troveremo un “carro” o una moto che ci porterà alla frontiera. La moto in effetti la troviamo e senza neanche arrivare a Mecanhelas ma alla prima sosta che facciamo e in realtà conviene, è più diretta.

30km su strada sterrata e si arriva alla frontiera. Timbro d’uscita, ciao Moz, 2-3km di camminata in terra di nessuno costeggiando una ferrovia e tanti ragazzini che ci studiano con malcelata curiosità e si arriva in Malawi dove ci aspetta una sorpresa: ci vuole il visto!!!!

  • No, scusa ma gli italiani don’t need visa (si è passati all’inglese).
  • Yes they do.
  • No scusa, non mi aspetto che tu abbia computer e connessione qui in mezzo, certo, ma potresti fare una telefonata al tuo ufficio centrale?     

 La telefonata viene fatta ma solo per ricevere conferma che dal primo ottobre le regole sono cambiate e adesso si, abbiamo bisogno del visto. Vorrei dirgli che, piuttosto che farmi il viaggio a ritroso, sono disposto a lucidare i 3km di rotaie da lì al Mozambico, ma senza bisogno di tale fatica i poliziotti Malawiani ci compilano un foglio di ingresso che ci fa entrare obbligandoci a presentarci ad un ufficio immigrazione serio entro 3 giorni.

Gli stessi poliziotti ci organizzano anche il trasporto in moto fino alla strada asfaltata (50km più giù) e contattano uno che ci aspetterà laggiù per cambiarci Euro in kwacha malawiani, che non ne avevamo neanche per pagare le moto.  Se i poliziotti hanno chiesto soldi? Beh sì, ma senza pretendere. E poi dopo tanto aiuto non gli offri da bere? Gliene rimandiamo un po’ con la moto, dopo averli cambiati.  Appena partiti passiamo fuori da una scuola. Centinaia di ragazzini in grembiule blu incuriositi dal nzungu (bianco) che passa in moto si avvicinano e salutano e gridano. Io grido con loro, apro le braccia e do centinaia di “cinque” a tutti mentre passo in moto, in mezzo alle risate generali, finché non mi lascio dietro anche i corridori più veloci. Bellissimo!   

50km su strada sterrata attraversando villaggi privi non solo di strada ma anche di elettricità.

  Dalla strada asfaltata prendiamo un minivan (qui non si chiamano più chapa) per Liwonde e prendiamo alloggio allo Shire Camp, sulle rive dello Shire, il fiume più grande del Malawi. Un enorme chalet/capanna tutto per noi accoglientissimo ed economico a 20m dal fiume dove in lontananza si vede un gruppo di ippopotami che oziano in acqua. Rispetto alla notte precedente, una reggia.

La sera, cena sul fiume a base di pesce Chambo, rinomatissimo nella zona. Ottimo.

La mattina dopo alle 6 (ormai il nostro fuso orario è quello di Delhi) partiamo per il giro in barca risalendo il fiume ed entrando nel parco nazionale protetto, pieno di ippopotami ma anche di coccodrilli e di elefanti. Ne vediamo davvero tanti e passiamo 3 ore immersi in contemplazione della natura più selvaggia.

Si torna allo Shire camp, colazione abbondante e si riparte verso Zomba, il suo ufficio immigrazione e il suo plateau con le cascate.

Appena scesi dall’autobus dove Osborne vicino di posto mi dà un po’ di lezioni di Chichewa e dove lascio sbadatamente il cappello, troviamo subito alloggio al Mango Lodge, nuovo di zecca e niente male. La sera ci mangeremo un pollo da leccarci i baffi, con mille complimenti al cuoco.

Andiamo all’ufficio immigrazione dove ci accoglie il direttore che ci tiene a specificare più volte che lui è “70 years old” e dopo averci fatto accomodare nel suo ufficio e averci spiegato in maniera molto pomposa e ripetitiva che sì, abbiamo bisogno di visto, ci dice che non ce lo può fare perché sprovvisto di adesivi (quelli col visto che si attaccano sul passaporto). Che la persona che ne è in possesso non è raggiungibile al telefono (?) e ci fa una lettera ufficiale altrettanto pomposa per l’ufficio immigrazione di Blantyre dove dice pomposamente che non ce l’ha potuto fare lui, che in fondo è 70 years old.

Vabbè..

L’ufficio di Blantyre è più di un ufficio, è una palazzina dove passiamo ore in attesa da un ufficio all’altro, per presentare domanda, per pagare, per ritirare la ricevuta, per fare foto e impronte digitali, per ritirare il passaporto. Senza considerare il tempo speso alla ricerca di dollari US con cui pagarlo visto che accettano solo quelli, che abbiamo finalmente trovato dopo una lunga ricerca, nonostante Blantyre sia la città con più alta concentrazione di banche per km2 che io abbia mai visto in vita mia. E mi chiedo il perché…

Riusciamo nello stesso pomeriggio a farci cambiare i biglietti dall’Ethiopian Airlines per partire da Blantyre ed evitare l’inutile viaggio a Lilongwe la mattina dopo.

Gli adempimenti burocratici mi fanno perdere la partita di calcio al Kamuzu Stadium fra i Big Bullets e i Tigers, che assegnerà l’ennesimo scudetto alla squadra di casa. Che peccato..

Dormiamo al Doogles, che in “Rapsody in black” di Bettinelli (quello che girava il mondo in vespa) gode di una menzione particolare. Mattinata successiva di semi-shopping in giro e si riparte, increduli di ritornare con solo un paio di voletti a un mondo distante anni luce da quello dove siamo stati nelle ultime due settimane e che ci è entrato un po’ nel sangue (non tramite zanzara malarica, spero..).