ARGENTINA 19

BUENOS AIRES

Si parte in 4 da Albano. Il viaggio delle mie scarpe da trekking finisce appena cominciato, dal benzinaio. Esco a far carburante e le suole praticamente mi restano in macchina. Era un po’ che non le mettevo e mi si sono completamente sfaldate dopo due passi. Mi basteranno quelle più basse che ho su, si parte più leggeri, via.

Abbiamo biglietti in stand-by ma l’Alitalia ci carica senza problemi. Il viaggio dura 14 ore che passano tra cena, 2 filmetti senza pretese, un po’ di lettura della Lonely Planet Argentina, qualche ora di sonno sparsa qua e là e la colazione finale. Arriviamo a Buenos Aires alle 8 di mattina, un po’ rincoglioniti ma felici. Usciamo con calma dall’area sterile dopo aver recuperato i bagagli, prendiamo un caffè e facciamo conoscenza con las medialunas, burrosi cornetti in formato ridotto che diventeranno immancabili nelle nostre colazioni argentine. Prendiamo un taxi per l’ostello; il vantaggio di viaggiare in 4 è che il taxi collettivo lo riempiamo da soli e ti costa meno dell’autobus che si paga individualmente. Fa caldo e soprattutto è umido e comunque qui è ancora estate piena pur essendo, climaticamente parlando, fine settembre.

L’ostello è a S.Telmo, quartiere centrale e un po’ bohemien. Ho prenotato una stanza per 4 in questa struttura affollata di viaggiatori zaino in spalla, per tanti dei quali Buenos Aires costituisce solo una delle innumerevoli tappe del loro lungo giro per tutto il Sudamerica. E’ economico e pratico, la media dell’età degli ospiti è bassissima e ci sembra il caso insomma, di alzarla appena appena. Anabela alla reception è gentilissima, non ci dà subito la stanza perché è troppo presto ma ci fa lasciare i bagagli, ci dà un po’ di informazioni e ci presta la tessera ricaricabile (la sube) con cui si entra in metro o in bus, in una città in cui i mezzi pubblici non accettano più contanti da tempo.  Camminiamo fino in centro per assaporare un po’ l’aria nuova, giriamo un po’ di posti di cambio per cercare il più conveniente (salvo vederne uno ancora migliore 100m dopo) e ne usciamo con grandi mazzette di banconote che ci basteranno per un po’.

Andiamo a prendere la Metro fino al quartiere di Villa Crespo, al ristorante di proprietà dell’ex Caporal Maggiore Fabian Raimondi. Lì ho fatto anche mandare i biglietti della partita del Boca Junior, visto che non erano digitali/stampabili e fuori dall’Argentina il sito di bagarinaggio legalizzato dove li ho acquistati non me li avrebbe spediti. Arriviamo per pranzo a “La Tenda-ristorantino italiano” e i biglietti per la partita (che si gioca quella sera stessa) non sono ancora arrivati. Però il cibo è ottimo, l’amatriciana è da favola, il vino pure e neanche finiamo di mangiare che arriva il corriere con i biglietti. E’ stato bello rivedere Fabian a 30 anni esatti dal mio congedo (potenza di Facebook). Lui è tornato a vivere in Argentina, dove era nato, 7 anni fa, ha una carina moglie locale, un ristorante piccolo e carino e tante idee per il suo futuro.

Grazie alla Sube ricaricata torniamo in ostello, prendiamo possesso della stanza, ci diamo una sciacquata, ci cambiamo e ci incamminiamo verso il quartiere de La Boca che il termine “verace” connota perfettamente. La sera della partita lo stadio, la Bombonera è il fulcro di tutto, il resto del quartiere, compresa la caratteristica via “caminito” con le sue casette colorate, è vuoto. Sembra che tutto il quartiere sia all’interno o nei pressi dello stadio e perciò, con buon anticipo, entriamo anche noi. Siamo nei settori popolari in alto. Di fronte, ma nemmeno troppo lontano vista la conformazione verticale delle tribune dello stadio, la curva più calda, con la tifoseria chiamata la doce(12) per indicare il dodicesimo uomo in campo;

Da lì partono i canti che vanno avanti praticamente senza sosta per 90 minuti. C’è una vera e propria orchestra di trombe e tamburi e che dà il là e mantiene il ritmo dei vari inni, cantati ad una sola voce da tutto lo stadio per tutto il tempo della partita, con tutti i tifosi che li accompagnano con un andirivieni ritmico del braccio destro; l’effetto è spettacolare ed usciamo estasiati con i padiglioni auricolari grati per la cessazione delle ostilità nei loro confronti. I canti ci resteranno in testa e costituiranno la colonna sonora del resto del viaggio, anche perché Nicola di Bari sarà interdetto dall’avversa tecnologia ..ma questa è un’altra storia.

Il giorno successivo ci svegliamo belli riposati per viverci il primo giorno intero in questa città nuova per tutti. Beh, belli riposati.. chi più chi meno insomma; quando si dorme nella stessa stanza in 4 cinquantenni, si sa che c’è sempre qualcuno che russa più dell’altro e anche il grado di tolleranza varia ma comunque.. Si fa colazione e si esce, la capitale ci aspetta.

Buenos Aires ci dà subito l’idea di una città vivibile ed accogliente, con tanto verde e ben curato, con i trasporti efficienti e con la gente simpatica e cortese, che si ferma per aiutarti se ti vede un po’ smarrito. Certo, venendo da una città europea si nota la mancanza di monumenti, di luoghi storici antichi, di immagini che vedevi sulle figurine dell’album “città del mondo” da bambino e ti è sempre rimasta la voglia di andarle a vedere dal vivo (se il monumento di riferimento è l’obelisco, figuriamoci il resto). Anche la Casa Rosada ci delude un po’, così piccoletta com’è, non riusciamo neanche ad immaginarci Evita/Madonna che arringa la folla di descamisados da quel balconcino e così dirottiamo la visita sul museo retrostante che invece ci appassiona. Non è eccezionale ma ha una sezione laterale con video che illustrano la storia dell’Argentina dalle origini ai giorni nostri, ogni stanza una puntata. Ce le spariamo tutte con diligenza, come si segue una serie TV e uscendo saremo più ferrati e consapevoli quando leggeremo i nomi delle vie o vedremo qualche personaggio storico di rilievo in bronzo su un cavallo al centro della piazza.  

Il pomeriggio andiamo all’Ateneo, quello che potremmo chiamare un teatro sconsacrato, adibito ora a libreria, strapieno di libri in platea, in galleria e anche nei vari piani con i balconcini, mentre l’ex palco è ora una caffetteria.

L’effetto è notevole e il posto è pieno anche di turisti che scattano molte foto tra una sbirciata e l’altra ai libri in vendita. Il piano seminterrato è adibito alla musica e lì, nella sezione mondo, tra la collezione completa di Laura Pausini ed Eros Ramazzotti, la mia attenzione viene catturata da una faccia familiare, Puglia anni ‘70, capelli folti e occhialoni.  Si compra subito il CD dei “20 grandes exitos en espanol” di Nicola di Bari, che includono Primera cosa bella, guitarra suena mas bajo e tanti altri, pregustandoci il ..piacere.. di ascoltarlo nei lunghi spostamenti patagonici.  Usciamo fuori, ci incamminiamo verso le vie pedonali del centro, dopo 2 minuti passiamo davanti ad una chiesa, la Basilica San Nicolas de Bari. Quando si dice il destino.

La mattina dopo è domenica, giorno di mercato del quartiere di S.Telmo. Ci andiamo subito dopo colazione perdendoci per buona parte della mattinata in mezzo quella parte di quartiere che con le sue bancarelle e i tavolini fuori dai bar fa tanto vecchia Europa. Andiamo via prendendo un taxi, il tragitto è lungo ma Hugo il tassista è un chiacchierone e ci racconta un sacco di cose dell’Argentina, di Buenos Aires, del Boca e del River Plate e delle sue nipoti, e sì perché, nonostante abbia la nostra età, ne ha già cinque (!!). Lui è gran tifoso del Boca e ci dice che quando il braccio che chiama il taxi è fasciato dalla manica della maglietta del River, tira dritto e aspetta il prossimo cliente. C’è sempre qualcuno più malato di calcio di te nel mondo..   

Hugo ci molla all’ESMA, la ex scuola militare della marina militare dove negli anni della dittatura vennero rinchiusi circa 5000 prigionieri politici tra uomini e donne, la maggior parte dei quali non ne è uscita viva. L’edificio che fu usato come prigione, l’ex circolo ufficiali, è diventato una sorta di museo, tanto interessante quanto sconvolgente. Ripercorriamo i locali dove i detenuti venivano tenuti incatenati ed incappucciati per mesi, quelli dove gli veniva fatta l’iniezione di Pentotal per addormentarli prima di caricarli su aerei che avrebbero aperto il portellone solo per depositarli, sedati ma vivi, in mezzo all’oceano e quelli dove venivano fatte partorire le prigioniere incinte. Il destino di questi neonati spariti è stato poi oggetto di ricerche richieste a gran voce da quelle che erano diventate “le nonne di Plaza de Mayo”, che una volta persa la speranza da “madres” di ritrovare vivi i propri figli, volevano almeno sapere che fine avevano fatto i loro nipoti, ben sapendo che le figlie erano incinte al momento della sparizione.  Grazie a questo movimento, tante nonne hanno ritrovato i loro nipoti, anche se gli intuibili ostacoli psicologici dei vari casi hanno fatto sì che non sia sempre stato un momento di gioia. 

Andiamo via con un po’ di brividi e ci facciamo una passeggiata al cimitero monumentale più famoso di Buenos Aires, quello de la Recoleta, dove la storia a puntate vista il giorno prima ci rende più familiari i vari nomi sulle lapidi, compreso quello della famosissima Evita, la cui cappella non brilla certo in spettacolarità e contrasta un po’ con lo stile glamour che aveva sempre ostentato in vita.

Usciamo, è zona di parchi, è una bella domenica di fine estate e sembra che tutta la popolazione cittadina (almeno quella da una certa età in giù), si sia riversata sull’erba, ad ascoltare musicisti improvvisati, farsi due chiacchiere e bere mate, bevanda di culto in Argentina. Il numero delle persone con un termos di acqua calda e la piccola zucchetta da riempire con la hierba mate sovrasta 100 a 1 quello di quelli con altre bevande, tipo la birra, che sarebbe molto ma molto più presente in ogni altro paese del mondo in un contesto simile. Forse per quello o forse no, l’atmosfera è rilassata e ci contagia, e c’è chi riesce a russare sull’erba anche in questo frangente (…)

La sera, mentre ci spappoliamo con gusto l’immancabile bisteccona, veniamo a sapere che il Racing ha appena vinto il campionato e quando usciamo dalla trattoria chiediamo a qualche tifoso con bandiera e maglietta d’ordinanza come mai il campionato sia finito dopo solo il girone d’andata (e il ritorno?). Ci dicono che in realtà in Argentina l’andata e il ritorno fanno parte di 2 campionati differenti, l’Apertura e la Clausura e loro hanno appena vinto il primo. Appena saputo di dove siamo partono cori inneggianti a Diego Milito, un Dio per i tifosi del Racing, tanto quanto Maradona e Martin Palermo lo sono per quelli del Boca. Il mate ha lasciato il posto a liquidi un po’ più fermentati e l’atmosfera è festosa ma pacifica, gli chiedo dove si stanno dirigendo a festeggiare: “All’obelisco”. E allora si parte e si partecipa alla festa con tanto di bandierone bianco celeste comprato al volo. “Ma non eravamo del Boca 2 giorni fa?”, “Si vabbè, ma che te frega, RACING YA SALIO’ CAMPEOOON”.

L’avenida 9 de Julio è tutta biancazzurra e la famosa piazza con l’obelisco è l’epicentro della festa. La scossa più forte la si ha quando arriva il pullman con la squadra, con i tifosi più assatanati che lo aspettano arrampicati alle luci dei semafori e se lo vedono passare sotto. Passato il momento clou, comincia il deflusso ordinato e tranquillo, e senza aver visto neanche un poliziotto in giro (sarà per quello?), il tutto in totale contrasto con le idee sui tifosi argentini che ci eravamo fatti dopo aver visto le immagini della abortita finale della Copa Libertadores di qualche mese fa. Anche se lì era Boca-River.. la temperatura che si raggiunge in quell’occasione non è paragonabile a questa.  

All’Ateneo, insieme al pregiato disco summenzionato, ed a una mappa scrausa della Patagonia, abbiamo comprato un libretto con le foto dei murales di Buenos Aires e l’indirizzo dove trovarli. Lo usiamo come guida per farci un giro in bicicletta il giorno dopo, partendo, come no, dal quartiere de La Boca con i suoi enormi ritratti di Maradona, Carlitos Tevez e non solo.

Ci sono anche murales inneggianti a “La Republica de La Boca”, che andando un po’ ad approfondire, scopriamo che è esistita davvero, anche se per un tempo molto limitato. Intorno al 1880 a La Boca, popolata soprattutto da immigrati genovesi che lavoravano principalmente a quello che era allora IL porto di Buenos Aires, era nato un movimento che chiedeva autonomia amministrativa per il quartiere. All’ennesimo diniego del governo cittadino, decisero di proclamare la repubblica indipendente de La Boca, stesero un atto formale e lo inviarono al re d’Italia. Il giorno dopo arrivò il presidente Julio Roca che li fece scendere a più miti consigli e la Republica durò praticamente solo un giorno ma il ricordo è ancora ben vivo e presente nei murales del quartiere e nello spirito indipendente degli abitanti, chiamati ancora oggi “los xeneises”, i genovesi, da Xena=Genova.  

Continuiamo la ricerca dei murales migliori uscendo da La Boca e dai confini di quella che è chiamata Capital Federal, entrando nel quartiere di Baracas e in posti in cui abbiamo per la prima volta la sensazione che “sì, fai sta foto a ‘sti murales e leviamo le tende, va!”  Ritorniamo pedalando verso nord, entriamo nel nuovissimo quartiere di Puerto Madero, tutto nuovi palazzoni vetro e cemento, ponte di Calatrava su una specie di naviglio e locali trendy sulle sue sponde. Il quartiere orgoglio della buona borghesia capitolina.

All’estremo nord di Puerto Madero c’è anche una “reserva ecologica” molto ben curata e frequentata dai locali, soprattutto nei giorni festivi. Ci torneremo il giorno dopo per farci in bicicletta tutto il perimetro, lungo diversi km.  Continuiamo il giro lungo le ciclovie della città che, anche se non onnipresenti e abbastanza strette, le puoi comunque usare per arrivare dappertutto, seguendo la mappa che te le indica. Ci dirigiamo nella bella zona dei parchi di Palermo, fino al Jardin Japones e riattraversiamo la città per riconsegnare le bici prima che chiuda. La stella polare dei murales ce la siamo persa a metà giornata..  Mauro non assolve ai suoi compiti da gregario, non tira la volata a Dino come avrebbe dovuto fare e lo sprint lo vinco io.

Il giorno dopo, il 2 aprile è festa nazionale. Festa, insomma. Diciamo che è un giorno di commemorazione, di lutto e allo stesso tempo di rabbia. E’ il giorno delle Islas Malvinas che il 2 aprile 1982 furono occupate dall’esercito dell’allora agonizzante dittatura militare in un vano sforzo per avere l’incondizionato appoggio della nazione intera. E visto che, come diceva Sting “there’s no such thing as a winnable war”, la Thatcher, anche lei in crisi per le proteste alle sue politiche liberiste e la crescente disoccupazione, prese la palla al balzo e inviò la Royal Navy che dopo 74 giorni mise fine all’occupazione argentina e ai malumori casalinghi. Il bilancio di 649 morti tra gli argentini, la maggior parte giovani soldati di leva, totalmente impreparati di fronte ai professionisti militari inglesi, fu la goccia che fece traboccare e rovesciare il vaso del regime militare ma abbiamo scoperto che nonostante questo buon risvolto collaterale, la questione Malvinas è molto viva e sicuramente una piaga dolente nell’animo di tutti gli argentini che considerano l’occupazione inglese come una vera e propria ingiustizia.  E a guardare la cartina.. uno capisce anche perché.  

Noi si salta le commemorazioni e si torna, come no, a La Boca. Passeggiata e visita al museo del Boca Juniors, dentro lo stadio. Poi ancora in bicicletta. Il pomeriggio potrei incontrare Joe, vecchio capo/amico che non vedo da 10 anni e che per pura coincidenza ci ritroviamo nello stesso posto a 12000 km di distanza da casa negli stessi giorni, ma lui trova i biglietti per la partita del S.Lorenzo e l’incontro salta. Il S.Lorenzo è la squadra per cui tifa il Papa. Un barista de La Boca ci aveva menzionato il Papa quando aveva saputo che eravamo italiani, ma invece dell’orgoglio per il Papa argentino aveva fatto una smorfia di disapprovazione (“E’ del San Lorenzo..”). Si, proprio più malati di noi questi.

La sera andiamo a mangiare al San Juan Cafè dove mangiamo la carne più buona mangiata finora. Anche la braciola di maiale è così tenera che.. si taglia con un grissino. La cameriera ha un accento diverso. E’ venezuelana e parliamo un po’ della situazione del suo paese, di come è arrivata qui e che progetti ha. E’ qui da un mese e si deve ancora un po’ ambientare ma è contenta dell’accoglienza. “Gli argentini in fondo ci vogliono bene”. Mi fa pensare con tristezza a casa, a quanti pochi immigrati oggigiorno possono dire la stessa cosa dalle nostre parti.

Torniamo in ostello per farci un paio d’ore di sonno (chi ci riesce) perché alle 2.30 abbiamo il taxi prenotato per l’aeroporto. Alle 4.55 abbiamo il volo per la Patagonia che alle 8.20 ci deposita a Rio Gallegos   

PATAGONIA

Abbiamo affittato la macchina con Alamo. E’ una Chevrolet mai vista prima, che speravamo fosse un po’ più grande ma in fondo ci basta e si dimostrerà parecchio resistente, ci porterà in giro per più di 2000km affrontando a pancia impavida tutti i sassi che le lunghe strade sterrate le spareranno sotto. Ha un solo grande difetto: non ha il lettore CD. Nicola di Bari non sarà nostro compagno di viaggio nell’abitacolo e viene relegato nel portabagagli. Incassata la delusione partiamo e la Patagonia ci accoglie con i suoi spazi sconfinati e ventosi, i suoi panorami e la sua desolazione. Facciamo 330km verso ovest fino ad arrivare sulle sponde del Lago Argentino, località El Calafate, base da cui si parte per vedere una delle meraviglie del mondo: il ghiacciaio Perito Moreno.   

L’ostello è bello, tutto di legno con ampie vetrate che danno sul lago e sul tramonto. Noi abbiamo una camera da 4 tutta per noi ma chi non dorme da tempo corre alle contromisure e ci convince ad affittare una stanza singola in più dove relegare il russatore seriale che lascia la stanza con in mano la valigia e l’orgoglio un po’ triste che da sempre caratterizza i rumorosi esiliati politici.

Il pomeriggio ce ne andiamo lungo le sponde del lago e visitiamo il Glaciarium, il museo dei ghiacciai dove ci documentiamo un po’ per arrivare più preparati all’incontro con il gigante congelato, evento che ci teniamo per l’indomani. Mangiamo in ostello e a letto presto, pregustando il sonno ristoratore stimolato dal silenzio dettato dall’assenza del ritmico russare dell’esimio esule.

Colazione a gruppo riunito esaltando le bellezze del sonno ritrovato e si parte. Non subito al Perito però, arriviamoci piano piano, partendo da lontano. Cerchiamo la strada che sulla mappa è segnata come quella che ci porta dritti dritti al Lago Roca, protuberanza sud del Lago Argentino. Cartelli niente, finiamo in un quartiere con strada senza uscita ma basta chiedere ad una macchina che passa e l’autista, dopo aver tentato invano di spiegarci la strada ci dice di seguirlo. La bambina arriverà un po’ tardi a scuola ma lui ci porta proprio dove la strada comincia (che gentili, ma che gentili sti argentini!). La strada è sterrata ma abbastanza piatta (troveremo di molto peggio) e dritta come una spada. Più o meno a metà strada, ed in mezzo al nulla, troviamo una specie di lapide monumento che fa riferimento ai moti del 1920 quando una colonna dell’esercito argentino mandata da Buenos Aires annientò con spietatezza la rivolta dei peones, contadini e pastori che chiedevano condizioni di vita più dignitose, uccidendo più di 1500 persone, tante delle quali trucidate a sangue freddo dopo essersi arrese. Di questa storia ne parla anche Chatwin nel suo In Patagonia e mi fa pensare che chissà se tra i trucidatori c’era qualche nonno o zio di Videla o Massera, che poi se ne vantava con la pipa in bocca tenendo il nipotino sognante sulle ginocchia..

Arrivati sulle sponde del Lago Roca c’è un sentiero che sale. Parcheggiamo e camminiamo, per goderci il panorama dall’alto, per cominciare a fare un po’ di trekking in salita,

dopo le passeggiate tutte piatte di Buenos Aires. E salendo un po’ si vede da lontano, si vede bene il Perito. Non possiamo più aspettare, via.

Giriamo intorno al lago e mentre ci avviciniamo il vento soffia sull’acqua, alza le gocce e forma un arcobaleno costante, che dura finché c’è vento o sole, praticamente tutto il giorno. Lo seguiamo e dove finisce lui comincia il ghiacciaio, o meglio termina la sua lentissima corsa proprio dentro al lago, lo spettacolo mozza il fiato.

La formazione di ghiaccio del Perito Moreno si estende per 250km e la testa, quella che ci ritroviamo davanti e ci lascia a bocca aperta, è un fronte di 70m di altezza per 5km di larghezza. E’ in continuo movimento e non dà segni di cedimento di fronte ai cambi climatici ma la sua particolarità, quello che lo rende la maggior attrazione turistica della Patagonia argentina è che arriva proprio davanti alla accessibile penisola Magallanes, sul cui fronte è stato costruito un articolato sistema di camminamenti di legno che ti fanno ammirare il Perito da ogni possibile angolatura.  Ce le camminiamo tutte con gli occhi fissi sul gigante, sperando di cogliere in diretta la caduta di un lastrone di ghiaccio. Ogni tanto ci fermiamo e studiamo quale potrebbe essere il segmento più debole e prossimo al crollo, quello meno stabile, con più crepe, forse quello più blu e tutto un chipiùnehapiunemetta di cazzate che se ci fosse stato un geologo lì intorno ci avrebbe cacciato a scudisciate..

e invece…  quando ormai avevamo quasi finito il giro, quando eravamo ormai quasi rassegnati allo zero a zero finale.. preceduto da una caduta di pezzetti di ghiaccio, eccolo lì, si stacca il lastrone che avevamo puntato, 70m di ghiaccio che vengono giù fragorosamente lasciando un’enorme cicatrice blu e causando il “lagomoto” nelle acque sottostanti. Il tutto accolto con gran giubilo tra gli spettatori dell’altra sponda. Cioè noi, con questa malattia che qualche stadio e qualche tifo da fare dobbiamo sempre crearcelo, e pochi altri. Dobbiamo smetterla lo so, però intanto ripartiamo con la sensazione gradevole dell’1-0 in zona Cesarini. E Vai!  

La sera si mangia nel bel ristorante La Lechuza, solita dieta di circostanza, carne e vino rosso di Mendoza. Mentre ci si lecca ancora i baffi, la partita a Traversone prima di darci la buonanotte. Mauro fa un cappotto “a sua insaputa” ma nonostante ciò non vince la partita, e non ne vincerà neanche una fino alla fine.

 Sveglia di buon’ora, colazione mentre l’alba illumina il Lago argentino e si parte verso nord, per affrontare i 200 e passa km che ci separano da El Chalten, capitale argentina del trekking. La strada è buona, ogni tanto c’è un mirador per gustare il panorama, circondati dai guanacos, una specie di lama arancione che sarà più o meno l’unica specie animale non addomesticata che vedremo in Patagonia. Le strade sono praticamente deserte. A me non piace tanto guidare. O meglio.. non mi piace il traffico, la costante concentrazione, i semafori, i limiti. Mi piace guidare solo le macchine delle pubblicità: quelle che guidi ridendo con gli amici immerso in un paesaggio da favola e la tua è l’unica macchina esistente.

Ecco, mi piace guidare in Patagonia fuori stagione.

i 200km volano. Accompagnati per l’ultimo tratto da un nuovo arcobaleno che ci indica la direzione, arriviamo a El Chalten, cittadina alquanto squallida con il pregio di essere situata in un piano che è alla base di meravigliosi e ben curati sentieri che girano intorno a montagne non alte ma spettacolari, quali il Cerro Torre e il FitzRoy. Da ragazzo avevo letto un libro di Cesare Maestri, un alpinista trentino chiamato “Il ragno delle Dolomiti” e della sua controversa scalata al Cerro Torre, monte di poco più di 3000m di altezza ma considerato quasi inaccessibile dagli scalatori di tutto il mondo perché da qualunque parte lo si voglia affrontare presenta almeno 900m di salita quasi verticale, una lama di roccia.  Maestri nel libro difende con veemenza la sua verità, quella di essere stato il primo a raggiungere la vetta nel ‘59 durante una scalata tragica in cui il suo compagno di avventura precipitò e i cui pochi resti vennero alla luce solo 15 anni più tardi. Verità che verrà sempre confutata dal mondo alpinistico internazionale tanto da non iscrivere “il ragno” negli annali come autore della prima ascensione. 

E dopo aver lasciato zaini e macchina fuori dalla Cabanas Cerro Torre, ed esserci rifocillati con caffè e medialunas si parte per una bella camminata verso un punto panoramico sulla famigerata montagna, il Mirador Maestri. Insomma, tutto il sudore che ha versato da queste parti, quantomeno il suo nome in qualche modo è rimasto inciso. Il tempo non è bello e ci nasconde il Cerro dalla vista, comincia anche a piovere, per la prima volta da quando siamo partiti e la via del ritorno ce la facciamo di fretta prima che si scateni l’acquazzone vero e proprio.

Arriviamo a las Cabanas giusto in tempo e prendiamo possesso del nostro fantastico bungalow di legno, due stanze doppie, bagno con doccia calda, cucina e tavolino per il traversone; che piova pure, là fuori.  

Passata la notte passato il maltempo, con una bella giornata di sole ce ne andiamo per un’altra camminata in montagna verso il bel punto d’osservazione dell’altra montagna famosa della zona, il Fitz Roy, così chiamata in onore del capitano del Beagle, la barca di Darwin.  Oggi è domenica e i sentieri sono un po’ più affollati di quanto pensassimo, incrociamo camminatori e lingue dalle origini più disparate, dal Giappone al Cile passando per tutto quello che c’è in mezzo.

Incontriamo anche Simone, viaggiatore romano conosciuto a El Calafate, in viaggio solitario per qualche mese. Che invidia.  

Torniamo in paese e dopo pranzo si parte, ci aspetta un viaggetto di 500km verso Puerto Natales, in Cile. La prima metà del viaggio scorre liscia ma mentre corriamo verso la frontiera cominciano un po’ di intoppi. La strada si fa più brutta e dissestata, le buche (baches) diventano più frequenti, “zona de baches” ci mettono in guardia i cartelli. Non si può neanche rallentare più di tanto perché sta facendo buio e chissà se la frontiera è aperta tutta notte. Si mantiene la velocità alta così come la concentrazione per evitare le possibili voragini. Una non riesco ad evitarla e il botto è forte, seguito da momenti di silenzio nell’abitacolo aspettando di vedere se la ruota si sgonfia, cosa che miracolosamente non succede. Mentre rendiamo lode alla nostra Chevrolet da guerra, vediamo una macchina che ci precedeva che, accostata al lato della strada sta sostituendo il pneumatico (si dirà pure LO pneumatico ma a me non piace proprio).  

Arriviamo a Rio Turbio, paese di confine, che è già buio pesto. Cerchiamo cartelli che ci indichino in qualche modo la direzione (Puerto Natales? Frontiera? Confine di Stato? CILE?) ma niente, proseguiamo la strada attraversiamo il paese chiamato 28 noviembre ma niente ancora. Ci fermiamo dove c’è il bivio con strada sterrata per Laurita(?) e torniamo indietro, riattraversando 28noviembre, Rio Turbio e il suo monumento ai minatori nella rotonda in mezzo alla strada. Chiediamo, svoltiamo, facciamo diversi km seguendo un furgoncino con targa cilena sperando stia tornando a casa e arriviamo al confine, consistente in una sbarra di traverso alla strada e una casetta accanto. Accostiamo e seguo il cileno che va verso la casetta. Un soldato si affaccia alla finestra per dirci che il confine è chiuso, è aperto quello di Laurita (nooo!!) ma chiude tra meno di un’ora. Chiedo al cileno se pensa di potercela fare, è un po’ preoccupato ma dice che se ci muoviamo con rapidità dovremmo farcela. Parte a razzo e la Chevrolet da guerra gli si incolla dietro. Monumento ai minatori, 28 noviembre, bivio per Laurita, dove eravamo arrivati un’ora e ½ fa. Se solo ci fosse stato un cartello!! Inizia la strada sterrata senza un lampione, il furgone cileno lanciato a gran velocità sobbalza e alza tantissima polvere, i fari della Chevrolet seguono al buio le sue 2 luci rosse in fondo alla nebbia senza neanche vedere la strada, girando quando gira lui, rallentando o accelerando quando lo fa lui, mantenendo la stessa distanza, in silenzio, con in sassi che picchiano sotto come unico rumore di fondo. Avanti così per 9 lunghissimi e surreali km fino ad arrivare al confine che sì, è ancora aperto. Ringrazio la mia stella polare cilena ed entriamo nella casetta per le formalità doganali, che dovremo poi ripetere dalla controparte cilena un po’ più in là, dopo l’attraversamento di 3km di terra di nessuno.  Le procedure di immigrazione con l’agente cileno avvengono in maniera molto più informale grazie alla lingua e alla cultura comune; no, non è italiano, parlo del calcio ovviamente. Ci elenca nomi di giocatori cileni passati in Italia negli ultimi decenni: Lazio? Salas! Roma? Pizarro!  e così via. Ci sciorina in rapida successione quelle poche parole di italiano che sa. Dice che gli piacerebbe impararlo (“se ci è riuscito Vidal, posso benissimo riuscirci anch’io”, ci dice).  E così fra calciatori, tarallucci, vino e nuovi timbri sui passaporti ci salutiamo e affrontiamo gli ultimi 20km che ci separano da Puerto Natales dove arriviamo stanchi e affamati.

Parcheggiamo davanti all’hotel Trotamundos, prenotato su booking.com il giorno prima, in Galvarino 847, trovato grazie alla mappa off-line scaricata nell’ultimo posto con wi-fi trovato per strada. Peccato che non ci sia nessuno, la porta è chiusa e l’SOS del campanello non viene accolto da anima viva.   La luce però è accesa e accanto alla scrivania c’è la password del wifi. Ci colleghiamo e tramite skype chiamiamo il numero di telefono che c’è sulla vetrina della porta. Ci risponde Cesar, tra 5 minuti è lì.  

Oggi è stata dura ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Mangiamo in un pub lì vicino e crolliamo a letto, pensando a cosa ci aspetta l’indomani, al motivo per cui siamo lì; a quello che è considerato il più bel parco del sudamerica: al Parque Nacional Torres del Paine.

Le Torres del Paine sono spettacolari monoliti di granito che si innalzano quasi verticalmente per 2800m. Nella steppa patagonica che sovrastano, ci sono laghi azzurri, cascate scroscianti, un ghiacciaio color celeste e foreste verde smeraldo, il tutto attraversato da strade e sentieri ben curati che meriterebbero ben più della misera giornata che il tempo tiranno ci lascia per dedicargli.  Un paio di lunghe passeggiate accompagnati dai guanachi riusciamo comunque a farcele immergendoci in tanta bellezza e riempiendoci i polmoni dell’aria di quella che già da 40anni è dichiarata dall’Unesco Riserva mondiale della biosfera.  

Con gli occhi ancora commossi per tante viste meravigliose e consapevoli di aver visitato uno dei posti più belli del pianeta, ce ne torniamo a Puerto Natales dove il caro Cesar ci ha promesso che ci presterà una stanza per farci fare una bella doccia prima di ripartire. Ci congediamo da lui e dal Cile con gratitudine e ripartiamo verso la frontiera che attraversiamo senza la fretta e i patemi d’animo della sera prima.

La mappa ci consiglia di andare a sud seguendo la via più diretta, la ruta 40, che ci porterà, dopo 260km più o meno, all’aeroporto di Rio Gallegos evitando la strada più lunga e piena di buche che abbiamo fatto ieri, ma..  dopo un po’ l’asfalto finisce e inizia lo sterrato. Restiamo un po’ per perplessi ma riecco l’asfalto, meno male era solo un pezzetto, e invece no, riecco lo sterrato che è tornato e stavolta per restare. Facciamo una ventina di km, ormai è buio, siamo in mezzo al nulla, i sassi torturano la pancia della Chevrolet e la velocità che riusciamo a mantenere non supera i 45km/h. E Rio Gallegos è ancora lontanissima. Da lontano vedo due fari di un pick-up che viene in direzione opposta. Quando si avvicina metto le 4 frecce e tiro fuori un braccio per chiedergli di fermarsi. Gli domando se questo fondo stradale è quello che ci aspetta per tanto tempo; mi dice che sì, per i prossimi 130km è così, che ci conviene tornare indietro e farci la strada di ieri.  Ci facciamo due conti tra distanze e medie orarie e conveniamo che in effetti ci conviene, così facciamo inversione e ci dirigiamo verso il bivio per Laurita, 28 Noviembre, il monumento ai minatori di Rio Turbio e tutta quella strada che ormai conosciamo a memoria. E’ già tardi, buio pesto, ci aspettano circa 300km di strada senza nessuna segnaletica orizzontale e, almeno in una tratta con le minacciose “baches”, con l’obbligo di mantenere una velocità sostenuta per non arrivare tardi e perdere l’aereo delle 2,30. Oltretutto il mio prezioso navigatore s’è ammalato di narcolessia e non fa più di 5km senza chiudere gli occhi e sprofondare tra le braccia di Morfeo. Sono un po’ preoccupato ma non lo do a vedere anzi..  sai che c’è? Siamo nell’emisfero sud, tanto a sud, ed è buio, tanto buio, non c’è la luna e non c’è una nuvola. Accosto. Scendiamo. Fumiamoci una sigaretta sotto il firmamento a noi sconosciuto prima della lunga tirata finale. C’è la Via Lattea e miliardi di stelle sconosciute. A testa in su ridiamo estasiati per questa situazione surreale finché, un po’ il tempo stringe, un po’ rumori di chissà quale animale lì intorno che non si vede ma si sente sempre più vicino, si rimonta in macchina e via, che il Dio degli indios tehuelche ce la mandi buona.  

3 ore di concentrazione massima, si evitano le buche e ci si concede anche una sosta per cena al solito punto di ristoro, una specie di autogrill in mezzo al nulla a La esperanza che ormai conosciamo bene essendo la terza volta in pochi giorni che lo visitiamo e si arriva all’una di notte all’aeroporto dove l’addetta della Alamo certifica il buono stato della macchina (meno male che non può guardare lo stato della sua pancia di ferro). Si vola per i 3000 e passa km che ci separano da Buenos Aires dove arriviamo all’alba, ci ingozziamo di caffè e medialunas e ci trasferiamo all’aeroporto di Ezeiza pronti per riattraversare l’oceano; l’inizio del nuovo giorno lo vedremo a Roma.

Lo sapesse Magellano che 500 anni dopo le sue traversie è diventato così facile e rapido spostarsi tra l’Europa e il Fin del mundo!